BUCO NERO. L’hanno già classificata come la foto del secolo e non sorprende che per riprenderla ci sia voluto un telescopio grande come la Terra. In realtà non si è trattato di un unico megatelescopio, quanto di una rete di osservatori distribuiti sulla superficie terrestre che, applicando il metodo interferometrico, agiscono come un unico enorme radiotelescopio. È così che gli scienziati del consorzio Eht (Event Horizon Telescope) hanno potuto rivelare al mondo la prima immagine mai vista di un buco nero, o meglio della sua ombra perché, lo ricordiamo, un buco nero (black hole) si chiama così proprio perché non si vede: in lui infatti la materia è talmente concentrata e densa quasi da annullarsi, dando origine a una “singolarità” in grado di sviluppare una gravità enorme che, per usare il linguaggio di Einstein, rende lo spazio-tempo circostante incurvato al punto da creare una voragine dalla quale nulla può sfuggire, neppure la luce.



Finora nessuno aveva mai fotografato un black hole. Ci erano andati vicino il regista del film Interstellar, Christopher Nolan e soprattutto il suo consulente scientifico, il premio Nobel Kip Thorne, che ha sviluppato un modello col quale è stata realizzata la simulazione del buco nero Gargantua e degli effetti di un suo avvicinamento da parte di una astronave. Le immagini del film hanno già tutto un loro fascino che diventa ancora maggiore in chi voglia approfondire la loro genesi e si immerga nella lettura del libro appositamente scritto da Thorne Viaggiare nello spaziotempo. La scienza di Interstellar (Bompiani 2018) dove il fisico statunitense – allievo del grande Archibald Wheeler a cui si deve l’invenzione del termine “buco nero” – ci accompagna nel favoloso e inquietante mondo pentadimensionale modellato dalla gravità e regolato dalle equazioni della relatività einsteiniana. Ma sia il film che il libro, con le loro spettacolari simulazioni, devono fare un passo indietro di fronte alla sorpresa di un primo piano reale scattato su un oggetto reale.

Com’è allora questo ritratto del black hole? Anzitutto diciamo chi è il “modello” che ha “posato” per permettere al “pennello” degli astrofisici di Eht di immortalare la sua tenebrosa silhouette. È un buco nero supermassiccio, che si trova al centro di una galassia ellittica gigante, denominata M87 (è la numero 87 del catalogo astronomico Messier), situata a circa 55 milioni di anni luce da noi nell’ammasso della Vergine; le sue dimensioni sono pari a circa 7 miliardi di masse solari ed è tale da essere visto dalla Terra sotto una dimensione angolare di circa 50 microsecondi d’arco. Era da tempo nel mirino dei paparazzi dei black hole e la sua cattura era in competizione con quella di un altro oggetto simile, Sgr A*, un buco nero supermassivo di 4 milioni di masse solari collocato nel nucleo della nostra galassia, ad “appena” 26mila anni luce dalla Terra nella costellazione del Sagittario. Per ora ha vinto M87, ma i fotografi cosmici pensano presto di catturare anche qualche fotogramma di Sgr A*.

Veniamo quindi alla foto. Come abbiamo detto, è un ritratto un po’ particolare: non si tratta del volto sorridente in primo piano quanto piuttosto della sua ombra, o meglio di quello che gli astrofisici chiamano “orizzonte degli eventi”, cioè la zona di confine del buco nero, attraversata la quale nessun segnale emesso può emergere: tutto ciò che oltrepassa l’orizzonte degli eventi resta intrappolato nella profondità del buco. Prima però di quel confine c’è una quantità di materia ridotta allo stato di plasma – cioè di gas ionizzato ad alta temperatura – in rotazione a velocità prossime a quella della luce; il plasma in rotazione individua al centro un disco scuro che rappresenta l’orizzonte degli eventi.

Questi sono i due elementi di una fotografia che passerà alla storia. Una foto che già dalle prime analisi ci rivela alcune caratteristiche originali di questi oggetti celesti e che apre nuovi interrogativi per future indagini: si nota evidente un’asimmetria tra la parte inferiore molto più luminosa (qualcuno ha già voluto vederci “quasi un sorriso”) e quella superiore più scura. Una prima spiegazione è quella suggerita da Ciriaco Goddi dell’Università di Leida, uno degli italiani che partecipa a Eth, insieme ad altri scienziati dell’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare): “Si può spiegare con un effetto relativistico, chiamato anche Doppler beaming o Doppler boosting”; ma la foto ha ancora molto da dire.

Anche i fotografi sono un po’ speciali. Intanto sono un gruppo e costituiscono alcune delle punte avanzate dell’osservazione astronomica mondiale; sono otto osservatori dislocati un po’ in tutti i continenti in modo da poter applicare la tecnica Vlbi (Very-Long-Base Interferometry), l’interferometria a grande scala, necessaria per decifrare oggetti con quella dimensione angolare: “vedere il buco nero M87 è come distinguere una pallina da tennis sulla Luna”. Gli otto operano in sincronia: dalle Hawaii, al Messico, all’Arizona, al Polo Sud, al Cile; proprio in Cile c’è il più emblematico di tali osservatori: è Alma (Atacama Large Millimeter Array), situato sulle Ande a 5100 metri di altitudine nel deserto di Atacama, con le sue 66 antenne molte delle quali durante le osservazioni per l’Eht vengono combinate creando virtualmente un unico elemento equivalente a un gigantesco radiotelescopio di 70 metri di diametro.

Tutti questi strumenti hanno lavorato per due anni operando a lunghezza d’onda intorno a 1,3 millimetri che corrisponde a una frequenza di circa 230 GigaHertz, giusto quella che serve per arrivare a ridosso dell’orizzonte degli eventi. Nei due anni hanno raccolto una mole di dati pari a circa 10 Petabyte (per intenderci, l’equivalente di 10mila hard disk esterni come quelli sui quali salviamo i nostri dati da conservare), la cui elaborazione ha prodotto la foto che oggi tutti possono ammirare.

Il risultato segna un ulteriore conferma della teoria della relatività generale di Einstein, che contempla la possibilità di punti singolari dello spaziotempo che si comportano come i buchi neri. Ed è una conferma che ha tutta la forza di una prova diretta, basata su un’evidenza sperimentale, su qualcosa che non si era mai visto prima d’ora; qualcosa che fa toccare agli scienziati – e grazie a loro un po’ a tutti noi – un livello vertiginoso del nostro rapporto col cosmo: quello che ci fa vedere qualcosa che ritenevamo invisibile.