L’ora di lezione sembra aver perso il suo significato profondamente coinvolgente per coloro che ne sono i protagonisti: uno spazio e un tempo di vita a cui la frammentazione dei processi toglie la «densità umana e professionale» propria della relazione insegnante-studente. Domande quali: «c’è vita nelle aule?» o «di che cosa un docente ha bisogno per insegnare?» sono provocazioni che esigono una riflessione seria per trovare risposte non superficiali. Risposte più che mai necessarie per affrontare i cambiamenti che la situazione attuale esige.



 

A metà ottobre sono intervenuto alla Tavola Rotonda che ha aperto la Convention 2020 di Diesse (Didattica e Innovazione Scolastica) intitolata Al cuore dell’insegnamento. Tra esigenze permanenti e nuovi scenari. Al termine ho sinteticamente augurato a quanti erano collegati di non aver paura di avventurarsi nella serietà ontologica dell’ora di lezione.
Sembra che l’augurio, e la sua formulazione, abbiano suscitato più di una richiesta di approfondimento.



Ma c’è ancora l’ora di lezione?

Prendiamo subito il toro per le corna. L’interrogativo è fondato, non solo perché la pandemia ha costretto a rivoluzionare la prassi didattica abituale e qualcuno – pensando alla modulazione degli orari, alle misure di prevenzione da reiterare più volte al giorno, alle distanze da rispettare e alla mortificazione forzata di almeno due dei sensi più attivi nella comunicazione personale – potrebbe un po’ pessimisticamente rispondere che dell’ora di lezione non è rimasto che un aggregato un po’ disarticolato e depotenziato di singoli segmenti, che costa non poco sforzo ricomporre. Ma anche perché, già da prima del Covid-19, la didattica corrente aveva cominciato ad andare incontro a una metamorfosi, sulla spinta di varie innovazioni (come per esempio le attività cooperative o laboratoriali, le strategie di apprendimento socio-costruttiviste, le metodologie multimediali) finalizzate a fare dell’aula un «ambiente» più «di apprendimento» che «d’insegnamento»1.



Se così fosse, dovremmo rassegnarci a celebrare il funerale della vecchia e cara «ora di lezione»; e acconsentire all’uso solo più retorico, a esaurimento, di questa locuzione.
Non so però se Massimo Recalcati sarebbe d’accordo – lui che ha intitolato così uno dei saggi più belli sulla scuola e sull’insegnamento pubblicati negli ultimi anni2.
Nel mio piccolo, anch’io non lo sono. L’ora di lezione è tutt’altro che un puro flatus vocis o una «buona cosa di pessimo gusto» del tempo che fu, per dirla con Gozzano. Nella sua unitaria e non scomponibile semplicità, essa è piuttosto uno spazio d’essere, di azione e di relazione «qualificato», molto più denso di fattori di quanto non sia (né potrà mai essere) il suo più diretto e immediato, funzionalisticamente parlando, pendant: l’ora di «studio». Paragoniamole: qui, un insegnante, un certo numero di alunni, un preciso spazio, fisico e simbolico, e un preciso arco di tempo – entrambi «dedicati»; là, il singolo studente: se fortunato, di questi tempi, solo nella sua stanza (come spazio fisico e simbolico, ben altra cosa che l’aula) ed engagé, sempre da solo, in un lavoro che non soltanto gli costa fatica (una fatica, certo, egualmente individuale; eppure, in qualche modo diversa da quella che si affronta in classe, in presenza e con l’aiuto dei compagni), ma anche che risulta più esposto – in mancanza dei fattori di controllo, tipici della scuola – alla distrazione o all’errore.

 


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Carlo M. Fedeli

(Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino)

 

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