È il momento di pensare l’istruzione e la formazione delle giovani generazioni in modo nuovo e di tradurre ciò in un impianto strutturale e organizzativo radicalmente diverso dall’attuale. Per avviarsi verso una scuola fondata sulla scoperta e sulla valorizzazione dei talenti di ciascuno; una scuola dove le conoscenze tacite acquisite al di fuori diventino conoscenza riflessivo-critico-sistematica; dove si possa recuperare il collegamento tra saperi disciplinari e vita.
La scuola è ripartita ma per il momento sono solo le preoccupazioni contingenti ad assorbire interesse ed energie di chi, a vario titolo, la vive o ne è coinvolto: i segnali di quella novità che è talvolta balenata nei mesi scorsi tardano a farsi vedere. Ma l’esigenza di cambiamento non viene meno.
Tra coloro che non si sono rassegnati e continuano a proporre una possibile nuova prospettiva praticabile c’è Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’università di Bergamo; ha suscitato notevole interesse un suo e-book dall’eloquente titolo Reinventare la scuola, nel quale il pedagogista detta – come recita il sottotitolo – un’agenda per cambiare il sistema di istruzione e formazione a partire dall’emergenza Covid-19; gli stessi temi sono poi ripresi nel recente La scuola al tempo del covid. Spazio di esperienza ed orizzonti d’attesa (Studium, Roma 2020).
Lo abbiamo incontrato per approfondire la sua visione e le sue proposte.
Professor Bertagna, nell’e-book lei scrive: «Il Covid 19, ha messo definitivamente in crisi i pilastri strutturali e le collaudate routine del modello tradizionale della nostra scuola …. Non è possibile governare e risolvere i problemi dell’educazione, della formazione e dell’istruzione nel nuovo millennio riproponendo solo un aggiustamento dell’organizzazione e dell’impostazione attuale». Bisogna quindi reinventare la scuola. Perché?
Semplice. Come ammoniva Einstein, non si possono risolvere i problemi che abbiamo mantenendo la stesse impostazioni che li ha creati. Ciò significa soltanto cronicizzarli. Rendendoli ancora più insidiosi e irrisolvibili.
Ebbene, noi tra gli anni sessanta e settanta abbiamo frainteso, per opportunismo politico o per faziosità ideologica, la giusta rivendicazione democratica dell’istruzione e formazione secondaria e terziaria «aperte a tutti» come se la scuola e l’università esistenti, ereditate dal fascismo, fossero state, con un rapido maquillage democratico-repubblicano, quelle «adatte per tutti, nessuno escluso». E se qualcuno non le avesse trovate adatte era, in fondo, colpa sua: non avrebbe avuto intelligenza, volontà, carattere, talento per «raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, comma 2 della Costituzione). Da qui il pregiudizio per cui chi non avesse avuto successo nel canonico cursus honorum medie, licei, università, dottorati – quasi non esistessero alternative formative possibili e altrettanto dignitose e formative per esaltare eccellenze e talenti diversi – avrebbe dovuto e potuto solo «andare a lavorare»; come se il lavoro fosse stato e continuasse ad essere la condanna o la scelta di risulta per chi non fosse riuscito e ancora non riesce negli studi formali esistenti, e come se tra studio e lavoro ci fosse opposizione e non feconda, solidale complementarità. Lavori alti o bassi che dir si voglia. Con tutti i problemi di disaffezione e diseducazione al lavoro e, soprattutto, di mismatch tra istruzione e formazione acquisita e competenze richieste dal mercato che si denunciano da sempre.
Per questo, una strada molto giusta ed emancipatrice nell’astratto ideologico per garantire il «diritto allo studio» per tutti si è paradossalmente rivelata, nella realtà, la migliore per perpetuare un impianto strutturale del sistema nazionale di istruzione e formazione secondario e terziario che tradiva questo principio e che riproponeva il solito paradigma selettivo da darwinismo sociale tipico del Novecento.
Per dirla con don Milani, non si era voluto comprendere che non si trattava più di mantenere una scuola che selezionasse «una nuova classe dirigente» del paese pescandola nella massa, ma di promuovere «una massa tutta cosciente», senza più escludere nessuno dei suoi membri per affermare il carattere plurale, diffuso e socialmente articolato di una classe dirigente che sia davvero tale e non riempita soltanto di butler del mainstream. Essa, infatti, è tale se si compone di tutti i talenti che si esprimono e si affermano come migliori e umanamente compiuti non solo in un ambito, importante quanto si vuole, ma nei tantissimi altri ambiti della vita sociale, dalle amministrazioni nazionali e locali agli enti e privati, dalla famiglia all’impresa grande e piccola, dal sindacato al mondo della cooperazione e del volontariato, dalla scuola alla chiesa, dal credito ai partiti. Insomma, in quelle «formazioni sociali» all’interno delle quali ciascuno svolge «la sua personalità» (art. 2, comma 1 della Costituzione) in modo «pieno» (art. 3, comma 2 della Costituzione).
L’epistemologia della complessità, la globalizzazione con i suoi limiti e le sue virtù, l’avvento delle nuove tecnologie non solo nell’informazione e nella comunicazione ma anche nei servizi e nella produzione, nella distribuzione e nel consumo di manufatti e prodotti, le promettenti prospettive dell’intelligenza artificiale, la necessità sempre più avvertita di attribuire un rinnovato senso unitario all’intreccio di tutte queste dinamiche ai fini della trasmissione del patrimonio culturale e, soprattutto, della formazione critica di ciascuno avevano già alla fine del secolo scorso messo in discussione radicale il tradizionale modello ordinamentale e organizzativo del nostro sistema di istruzione e formazione. Non è un caso che a pochi anni di distanza (1997, riforma Berlinguer; 2001, le proposte originarie della riforma Moratti) ci siano stati due tentativi che, in modi tra loro diversi, l’uno marxista e l’altro personalista, avevano proposto di superare queste eredità del Novecento. La politica fanatica e inconcludente che ha perseguitato questo nostro paese ha impedito finora qualsiasi cambiamento appunto delle strutture e delle routine del nostro sistema di istruzione e formazione. Se è vero, come ci ripetono ogni giorno Vaticano, Onu, Europa, mainstream nazionale e mondiale che “La pandemia impone un ripensamento dei modelli di sviluppo per rinnovare la società”, “Una transizione epocale”, perché solo la scuola e l’università che abbiamo dovrebbero rimanere come sono?
Quali sono allora gli interventi sul piano strutturale e su quello organizzativo che, a suo avviso, possono favorire l’affermazione generalizzata di un nuovo modo di pensare l’istruzione e la formazione delle giovani generazioni?
Sul piano della struttura, vista anche la catastrofica dinamica demografica che non permette più di sprecare l’intelligenza e il contributo di nessun giovane – e non solo per sensibilità pedagogiche ma anche per esigenze economiche e sociali – è ragionevole passare:
a) da una scuola che dichiara meritevoli solo gli studenti che si adattano meglio degli altri alle proprie regole e aspettative (partire in 100 a sei anni e arrivare alle lauree in 25) e che, in questo modo, è una potente macchina dissipativa delle eccellenze e dei talenti che ogni persona porta con sé, ad una scuola fondata sul contrario, cioè sulla scoperta e sulla valorizzazione delle eccellenze e dei talenti di ciascuno.
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Giuseppe Bertagna
(ordinario di Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’università di Bergamo)