Qualcosa insegna la vicenda degli scioperi proclamati per il 17 novembre e poi parzialmente ridotti. Come noto, all’ordinanza firmata dal ministro Salvini il 14 novembre per delimitare le modalità di svolgimento di questi stessi scioperi, è seguito l’annuncio dei sindacati che hanno accettato le modalità indicate nell’ordinanza. Questa vicenda insegna, innanzitutto, che il rapporto tra il mezzo – lo sciopero – e il fine, e cioè la sfida che due dei tre sindacati confederali avevano rivolto al Governo, non è una variabile indipendente rispetto alla tutela dei diritti costituzionali di tutti i cittadini. Insegna, inoltre, che queste controversie non possono essere confinate sul piano strettamente tecnico-giuridico, ma, proprio per il loro intrinseco rilievo politico, tanto più quando l’oggetto della lotta sindacale è la legge di bilancio, dal punto di vista politico vanno affrontate e conseguentemente valutate.



Se riavvolgiamo il nastro, in sostanza, l’ordinanza firmata dal ministro Salvini il 14 novembre ha ratificato le conclusioni cui era appena pervenuta, dopo l’interlocuzione preventiva con i due sindacati, l’Autorità Garante che ha il compito di garantire la corretta attuazione della legge che disciplina l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Un compito che, si badi bene, non è rivolto a proteggere la controparte dei lavoratori (e cioè i datori di lavoro), ma a proteggere il nucleo essenziale dei diritti che la Costituzione prevede e garantisce a tutti i cittadini.



Si tratta di una funzione di garanzia che è stata introdotta in Italia con la legge n. 146/1990, approvata dopo un lungo e acceso dibattito tra chi intendeva lasciare alle parti sociali il compito di autoregolarsi, e chi, invece, chiedeva di evitare che nei conflitti sindacali e in quelli politico-sindacali si giungesse a comprimere in modo inaccettabile e sproporzionato gli altri diritti che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini.

Ricordando allora le difficili e turbolente vicende che hanno attraversato l’Italia degli anni Settanta e Ottanta, l’approvazione nel 1990 della legge sullo sciopero ha segnato un  punto fermo, che possiamo considerare ormai irrinunciabile, per stabilire un corretto equilibrio tra l’esercizio del diritto di sciopero, costituzionalmente previsto e garantito, e la tutela di altri diritti e libertà che sono parimenti garantiti dalla Costituzione.



Più esattamente, la legge n. 146/1990 non consente di proibire tout court lo sciopero, ma pone un’articolata disciplina rivolta ad assicurare che l’esercizio del diritto di sciopero avvenga nel rispetto almeno degli aspetti essenziali dei diritti concernenti la tutela della vita, della salute, della libertà e della sicurezza della persona, dell’ambiente e del patrimonio storico-artistico, della libertà di circolazione, della libertà di comunicazione, oltre alla tutela di altri diritti relativi all’assistenza, alla previdenza sociale e all’istruzione.

La legge, va aggiunto, assegna non all’Autorità Garante, ma all’autorità di Governo – cioè al Presidente del Consiglio o al Ministro competente – il compito di adottare l’ordinanza che può incidere direttamente sulle modalità di esercizio del diritto di sciopero, ad esempio riducendone durata e modalità di svolgimento, proprio come è avvenuto nel caso di specie.

Insomma, se non si conclude con un accordo l’interlocuzione preventiva tra l’Autorità Garante e i sindacati circa il punto di equilibrio tra lo sciopero proclamato e le garanzie minime da offrire agli altri diritti costituzionali, e quindi se le interpretazioni sulla disciplina posta dalla legge sono divergenti, la responsabilità della decisione deve gravare sull’autorità di Governo. È il Governo che, nell’immediatezza del caso, deve decidere quale interpretazione far prevalere, e la sua decisione può certo essere impugnata dai sindacati davanti al TAR, ma l’impugnazione non ne sospende l’immediata esecutività. Inoltre, l’inosservanza dell’ordinanza comporta l’erogazione di sanzioni sia a carico dei lavoratori che delle organizzazioni sindacali.

Insomma, per quanto sorretta dal parere già formulato dall’Autorità Garante, è evidente che l’ordinanza adottata dal Ministro ha comportato anche l’assunzione di una sua propria e diretta responsabilità politica, pure nei confronti dell’intera collettività. E di fronte a questa assunzione di responsabilità è seguita quella dei sindacati, che, valutando i costi e i benefici politici, hanno rinunciato a una prova di forza, agendo quindi “responsabilmente” anche nei confronti dei loro associati.

Tutto questo risponde appieno alla logica della democrazia rappresentativa: spetta a chi governa assumersi la responsabilità delle decisioni che comportano una determinata ripartizione dei sacrifici – e quindi delle limitazioni dei diritti – tra i componenti della collettività. E spetta, infine, ai cittadini valutare le decisioni adottate e giudicare, anche da questo punto di vista, l’operato dei governanti così come quello dei sindacati.

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