“Rivolteremo come un guanto questo Paese … C’è bisogno di una rivolta sociale”. Maurizio Landini, segretario della Cgil, non usa mezzi termini. E definisce la giornata di ieri, con lo sciopero generale, “una giornata di mobilitazione come da tempo non si vedeva. Oggi inizia un percorso di mobilitazione”.

Parole forti quelle del sindacalista. È una delle giustificazioni che si aspettavano quanti hanno impedito la libera manifestazione del pensiero nelle università di Roma e Milano e che ieri hanno provocato disordini in varie città d’Italia. Una sorta di sovrastruttura ideologica per coprire, implicitamente, azioni violente e antidemocratiche. Di fronte alle quali abbiamo assistito al solito silenzio da parte dei media (tranne rare eccezioni) e alla complicità di tanti fra intellettuali e maître-à-penser. Una situazione che ricorda quello che accadde nel 1971.



Il 13 giugno di quell’anno l’Espresso pubblica una lettera aperta sul caso Pinelli in cui numerosi politici, giornalisti e intellettuali chiedono la destituzione di alcuni funzionari, ritenuti artefici di gravi omissioni e negligenze nell’accertamento delle responsabilità circa la morte di Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra mentre era in stato di fermo presso la questura di Milano, nell’ambito delle indagini sulla strage di piazza Fontana condotte dal commissario Luigi Calabresi. Questi alcuni passaggi della lettera:



“Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice (…). Oggi come ieri (…) il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni”.



La firmano ben 757 fra intellettuali, uomini dello spettacolo, docenti universitari, medici, politici e altri ancora. Qualche nome fra gli altri: Giorgio Amendola, parlamentare Pci; Carlo Lizzani, regista; Giulio Carlo Argan, critico d’arte; Giorgio Benvenuto, sindacalista; Alberto Bevilaqua, scrittore; Cesare Musatti, psicanalista; Morando Morandini, critico cinematografico; Dario Fo, attore e regista; Camilla Cederna, giornalista fra i promotori dell’iniziativa.

Un triste proclama che anticipa e scrive la condanna a morte del commissario. Leonardo Marino, uno del commando che uccise Luigi Calabresi, lo ricorda bene in un suo libro: “Il nostro compito era di uccidere Calabresi per vendicare la morte del compagno anarchico Giuseppe Pinelli che tutti gli intellettuali italiani, a cominciare da Dario Fo e dai più famosi giornalisti, definivano vittima di Calabresi, gettato dalla finestra di Calabresi”.

Ma non è finita qui. Nell’ottobre 1971 il quotidiano Lotta Continua, legato alle posizioni dell’omonima formazione extraparlamentare di estrema sinistra, pubblica un’autodenuncia (sottoscritta da numerosi noti intellettuali) indirizzata al procuratore della Repubblica di Torino che aveva inquisito alcuni suoi militanti ed ex-direttori per istigazione a delinquere. In un suo significativo passaggio il documento così recita:

“Testimoniamo pertanto che, quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società ‘l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe’, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono ‘se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato’, lo diciamo con loro. Quando essi gridano ‘lotta di classe, armiamo le masse’, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a ‘combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’, ci impegniamo con loro”.

Fra i firmatari: Giulio Carlo Argan, critico d’arte; Tinto Brass, regista; Lucio Colletti, filosofo; Umberto Eco, semiologo; Natalia Ginzburg, scrittrice; Paolo Mieli, giornalista; Paolo Portoghesi, architetto; Giovanni Raboni, poeta; e altri ancora. Cattivi maestri che non hanno mai smesso di pontificare, tranne qualche eccezione (vedi Mieli). E che ancora oggi fanno parte di quella maggioranza attiva di fiancheggiatori dei violenti: “Ma in fondo, sono ragazzi”.

P.S. Un consiglio ai giovani di Obiettivo studenti a cui è stato impedito di parlare all’Università Statale di Milano. Una cosa simile successe anche ai Cattolici Popolari, di cui facevo parte. Era il 1975. Avevamo programmato una riunione di lista alla facoltà di Medicina a Città Studi, aula di Anatomia. Un atto molto coraggioso e spavaldo nel fortino della sinistra extraparlamentare. I compagni lo vennero a sapere e si prepararono, con chiavi inglesi e bastoni, a impedirla. L’assemblea era prevista per le 17, ma, sapendo della mobilitazione, l’anticipammo alle 15. Durò mezz’ora. Fino a quando un gruppo di trecento scalmanati, guidati dal servizio d’ordine di Avanguardia Operaia, invase l’aula. Ci ritirammo in buon ordine. Avevamo vinto la nostra battaglia. Un particolare curioso. Nel corso della “ritirata strategica” ci accorgemmo che mancava il nostro amico Eugenio. Spaventati, io e un altro ritornammo per vedere cos’era successo. Sulla gradinata di Anatomia, insieme ai compagni, c’era anche lui. A gridare, col pugno alzato: “Via, via i servi della Cia!”. Oggi Eugenio è frate carmelitano.

 

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