La decisione di proclamare uno sciopero generale per i dipendenti pubblici per il rinnovo dei contratti di lavoro nel corso di un’emergenza sanitaria che, in aggiunta ai danni per la salute, ha richiesto la mobilitazione di oltre 100 miliardi di risorse pubbliche per sostenere le imprese, i redditi e i lavoratori è decisamente imbarazzante. Una scelta ancora più incomprensibile alla luce degli stanziamenti che il Governo ha già previsto con la nuova Legge di bilancio, 3,750 miliardi di euro, destinati a crescere di altri 3 miliardi con le coperture a carico delle regioni e degli enti locali, con una aggiunta di 400 milioni all’originale spesa prevista per assicurare un aumento medio degli stipendi superiore ai 100 euro mensili, per il triennio 2019-2021.



Discutere della congruità della proposta del Governo è persino superfluo. Il problema non è certamente quello di verificare se l’importo è più o meno proporzionato alle legittime aspettative dei lavoratori, ovvero alle previsioni della crescita dell’inflazione, comunque ben al di sotto del 3,5% equivalente al valore dell’incremento degli stipendi richiamato in precedenza. La richiesta di aumentare ulteriormente queste risorse, e soprattutto la volontà di sostenerla con uno sciopero della categoria, con la metà del personale che lavora in smart working dalla propria abitazione, dovrebbe essere valutata alla luce di quanto sta avvenendo sull’insieme del mondo del lavoro.



Non sono nemmeno necessarie le analisi pubblicate dall’Istat sull’andamento del mercato del lavoro, o le recente ricerca sviluppata dal Censis, che evidenzia come il 40% dei lavoratori dipendenti e autonomi abbia il timore di perdere il lavoro per le conseguenze della crisi economica, per comprendere gli effetti devastanti sull’occupazione e sui redditi delle persone, con la prospettiva di dover mobilitare ulteriori risorse per le casse integrazioni e i ristori una tantum, per limitare i costi sociali conseguenti. A nessuna persona di buon senso dovrebbe sfuggire il fatto che dalla sopravvivenza dell’apparato produttivo privato dipende anche la possibilità di assicurare le risorse per sostenere i costi della Pubblica amministrazione e delle prestazioni sociali. Nella condizione attuale, la sicurezza di avere uno stipendio e una pensione garantita assume un valore che va ben oltre qualsiasi rinnovo contrattuale. A maggior ragione se viene prevista per i dipendenti pubblici una tutela ragionevole degli stipendi con il rinnovo dei contratti che li riguardano.



Le rappresentanze sindacali dei lavoratori pubblici hanno buone ragioni di sottolineare come nel corso dell’ultimo decennio, in particolare negli anni che vanno dal 2011 al 2017 coincidenti con il blocco dei rinnovi contrattuali, gli stipendi dei pubblici dipendenti siano stati penalizzati rispetto all’andamento dell’inflazione. In effetti, solo con il rinnovo dei contratti del 2018, con un incremento medio del 2,5% delle retribuzioni, è stato possibile recuperare il valore reale delle stesse del 2010. Il tutto in coincidenza di un significativo ridimensionamento (-4%) degli occupati legato al parziale blocco del turnover, con una particolare sofferenza per i servizi rivolti al pubblico, a partire da quelli del settore sanitario, emersi in modo tragico nel corso della gestione della pandemia Covid.

Ridurre la questione del rinnovo dei contratti alla parte relativa agli aumenti salariali sarebbe un errore. È diffusa la consapevolezza che senza un cambiamento radicale della Pubblica amministrazione, della sua capacità di erogare risorse e servizi in tempi rapidi, l’obiettivo della modernizzazione della nostra economia rischia di essere vanificato. Altrettanto condivisa è la necessità di dotare l’amministrazione di tecnologie digitali più avanzate, in grado di gestire in modo condiviso una molteplicità di informazioni, di erogare la quantità e la qualità dei servizi facilitando l’accesso ai cittadini. Ma per questo scopo l’innovazione tecnologica non basta, deve essere accompagnata dall’adeguamento delle competenze dei lavoratori, dalla mobilità del personale, dal cambiamento radicale dei rapporti con gli utenti, che devono essere coinvolti nella valutazione dei servizi.

Cose abbastanza scontate nelle aziende private, in particolare quelle obbligate a vendere i servizi in condizioni di mercato. Ma che non lo sono affatto per le amministrazioni pubbliche, dato che questi cambiamenti comportano anche dei mutamenti delle consuetudini dei lavoratori, soprattutto per quelli che hanno lo stipendio assicurato e non corrono alcun rischio di perdere il lavoro. In questo caso le innovazioni dipendono essenzialmente dalla capacità degli amministratori politici di promuoverle, contemperando in modo equilibrato gli interessi e le tutele dei lavoratori pubblici con quelli degli utenti e degli interessi generali della comunità.

I tentativi di modernizzare l’amministrazione nel corso degli anni 2000 si sono mossi in particolare nella direzione di aumentare gli organismi di controllo dei risultati formali delle amministrazioni e i comportamenti dei singoli lavoratori per limitare il fenomeno dei “furbetti del cartellino”. Senza particolari ambizioni di incidere sulla modalità di organizzare le prestazioni e la gestione del personale. Nei tempi recenti la scelta di ripristinare il turnover del personale è stata fatta a prescindere da una seria analisi dei fabbisogni dei servizi e delle competenze richieste. La mobilità del personale può essere fatta soltanto su adesione volontaria degli eventuali interessati sulla base di interpelli pubblici, che richiedono una complessa gestione burocratica e sindacale. Nei tempi recenti si è deciso di rendere strutturale per il 60% del personale lo smart working, introdotto in modo improvvisato per 1,3 milioni di lavoratori per le note vicende Covid, senza alcuna verifica dei riscontri prodotti nell’ambito di una sperimentazione improvvisata, soprattutto le conseguenze generate sui servizi rivolti agli utenti.

La tentazione di blandire il bacino dei pubblici dipendenti per gli obiettivi di allargare il consenso politico dei governanti di turno è proseguita nel corso degli anni, a prescindere dalle promesse di rivoluzionare pratiche e comportamenti della Pubblica amministrazione. In piena coerenza con questo passato, per la finalità di evitare lo sciopero, la ministra della Pubblica amministrazione Dadone promette un adeguamento delle risorse disponibili per aumentare gli stipendi più bassi e di destinare i risparmi legati allo smart working (quali?) all’incremento dei premi di risultato.

Sulla riforma della Pubblica amministrazione si gioca un pezzo rilevante della credibilità della nostra classe dirigente politica riguardo la promessa di utilizzare in modo efficace ed efficiente le risorse disponibili rese disponibili dall’Unione europea e di ridurre i divari tra i ceti protetti e quelli esposti ai turbamenti del mercato e della competizione. Ma i primi segnali non sembrano andare nella giusta direzione.