Lo sciopero dei lavoratori pubblici, indetto per oggi dai sindacati confederali, ha suscitato molta perplessità. Non mancano certo le ragioni per chiedere un tavolo di discussione e confronto su temi cruciali, dalla formazione al lavoro agile, e per richiamare alla propria responsabilità di indirizzo e decisione chi siede al Governo.



Semplicemente, è evidente l’inopportunità della scelta di questo strumento, estrema ratio nel conflitto tra parti, nel momento attuale.  L’immagine del dipendente pubblico ne uscirà ancora più devastata, grazie al tritacarne mediatico fatto di semplificazioni e contrapposizioni, che alimenta tensioni tra categorie, apparentemente contrapposte.



Provate a parlare di questo sciopero ad un giovane che si sta affacciando, oggi, al mondo del lavoro e capirete quali distanze siderali separano questo sciopero dalla realtà.

La disciplina e l’onore nel servizio alla nazione, come richiama la Costituzione, sono sostituiti nel sentimento comune dall’idea del privilegio di un posto, al sicuro dai rischi della vita di tutti, addirittura al sicuro da una pandemia.

In balia di quell’anarchia di Stato descritta da Sabino Cassese qualche giorno fa sul Corriere della Sera a proposito del caos istituzionale pandemico, la matassa, sempre più ingarbugliata, delle funzioni pubbliche non sembra avere soggetti interessati al suo sbrogliarsi.



Non è tempo di riforme, perché lo è sempre stato, e forse è scaduto, visto che quelle fatte, attese come risolutive, mostrano i loro limiti e le loro incompiutezze. E dopo la sbornia di Dpcm e ordinanze, resta lo scetticismo diffuso sull’idea che una legge, seppur ben fatta, possa dare un contributo decisivo.

Eppure, è necessario continuare a garantire attività, servizi, presidi e l’urgenza di ricostruzione del Paese richiede proprio alla pubblica amministrazione un ruolo decisivo. Come farlo in questo clima? Con che prospettiva? E di cosa c’è bisogno? Cosa nasconde il malessere di tanti dipendenti pubblici che non vedono riconosciuto il loro ruolo e il loro lavoro, giudicato inutile se non dannoso? E come cambiare questa percezione?

Molti autorevoli osservatori ci indicano che la pandemia ha evidenziato processi già in atto e difetti strutturali già esistenti, in ogni ambito e la funzione pubblica, che articola in sé in tutti i suoi livelli l’intera vita sociale, non può che far emergere, potenziato, questo scenario di crisi già in atto.

Ci sarà il tempo per approfondire e trovare anche nuovi strumenti e modelli di organizzazione, con il contributo del mondo scientifico e accademico.

Forse è necessario ripartire, però, dall’esperienza di quanti hanno affrontato questi mesi di pandemia dalla postazione di un ufficio pubblico, così come dalle tante domande e dalla condivisione di esempi e punti di novità reale eclatanti o meno che ne sono scaturiti. Da essi emerge come il fattore determinante rimanga la persona che agisce con consapevolezza e responsabilità.

Il clima di emergenza facilita la chiarezza degli obiettivi e questo offre una chiave per il proseguimento, in tempi di pace, di quell’agire che ha bisogno di una sua utilità, palese e riconosciuta.

Il bisogno formativo, specie in un organismo patologicamente vecchio, come quello della Pa italiana, nasce prima di tutto dal bisogno di riappropriarsi di questa consapevolezza dello scopo del pubblico servire, fino ai più nascosti processi di back-office, apparentemente meno operativi e utili, mentre la dimensione educativa e formativa appare sempre più necessaria per quella transizione culturale che va oltre il semplice aggiornamento.

In questa chiave, guardare al digitale come adattamento tecnologico piuttosto che come vera e propria riorganizzazione dei processi, rischia di ridurre la portata dei cambiamenti in atto ed elude la necessità di chiarire lo scopo dell’attività amministrativa.

L’altro fattore essenziale è riportare la relazione al centro della creazione di valore e bene comune. L’applicazione, spesso tardiva e goffa, di modelli di efficientamento basati su paradigmi economici di tipo individualistico ha finito per creare, infatti, solo ulteriori livelli di adempimenti formali non riconoscendo le caratteristiche specifiche della macchina pubblica, che vive di relazione al suo interno come fuori di essa, tanto che l’autoreferenzialità è considerata uno dei principali mali degli apparati pubblici.

Questa relazione si gioca prima di tutto ponendo al centro il bisogno reale, così come si presenta, sempre più spesso in modo diverso da prima.

È necessario abbandonare procedure consolidate ed avventurarsi in nuove soluzioni, richiedendo affronti trasversali, possibili solo se la relazione torna ad essere un valore creativo dell’agire pubblico, superando divisioni di competenze, a tutti i livelli, anche contro un pensiero dominante, autorevolmente alimentato, che getta il sospetto sulla relazione e sulla fiducia, come potenziali pericoli per l’imparzialità e la correttezza della azione amministrativa.

Solo insieme si può decidere come sbrogliare la matassa e dove è necessario tagliarla, per risparmiare tempo e risorse da investire nella ripartenza; solo insieme si può uscire dall’assedio e abbandonare la difesa istintiva che porta all’immobilismo.

Sostenere questa lavoro quasi artigianale ma con una forte prospettiva “culturale”, valorizzando tutti gli strumenti a disposizione, tra cui certamente lo stesso rinnovo di un contratto collettivo di lavoro pubblico, è il contributo che ciascuno può offrire, nella diversità di ruoli, recuperando quella consapevole responsabilità che, nella confusione che spesso sembra regnare all’interno della pubblica amministrazione, appare il primo e più essenziale fattore necessario per evitare il naufragio di qualsiasi possibile riforma.