Sembra che la goccia che ha fatto traboccare il vaso e spinto Di Maio a convocare la conferenza stampa di annuncio della scissione, sia da ricollegare alla dura reazione di Roberto Fico dell’altro giorno.
Ancora una volta come epicentro di una pesante crisi politica nazionale c’è Napoli e due giovanotti cresciuti sotto il Vesuvio. Roberto Fico da un lato, nato nel benestante quartiere del Vomero, e Luigi Di Maio dall’altro, allevato nella più ruspante e post-operaia Pomigliano d’Arco.



E Conte? L’avvocato del popolo che c’entra? Conte nel Movimento entra proprio grazie al giovane ministro degli Esteri che lo scopre nelle retrovie dell’organizzazione e lo indica come futuro ministro in un ipotetico governo da fare dopo il voto del 2018. Solo il caso – complice la sotterranea rete di relazioni importanti, tenute bene nascoste dall’avvocato ai vertici del Movimento – porteranno Conte alla presidenza del consiglio e a guidare il nascente governo giallo-verde. Quando in pieno agosto 2019 Conte e Salvini si prendono a pesci in faccia in parlamento, diventa difficile per Grillo e soci rimuoverlo dalla trattativa, anzi diventa una bandiera da difendere, ora che la maggioranza sta per trasformarsi in giallo-rossa. L’arrivo della pandemia ha cambiato ancora una volta il corso delle cose, mettendo nelle mani di Conte enormi poteri straordinari e risorse pubbliche da spendere mai viste prima.



Tutto questo per dire che Conte c’entra poco o nulla con lo scontro politico che covava da tempo tra i giovani leoni allevati da Grillo. Dopo aver perso per strada l’esuberante Di Battista, il conflitto ha portato i 5 Stelle a dividersi creando due squadre contrapposte, come spesso capita nei partiti organizzati in correnti, una legata al capo delegazione di governo, e l’altra a Roberto Fico, nel frattempo assurto a terza carica dello Stato. Che strana ironia della storia vedere i due giovani leader del Movimento completamente assorbiti dai loro nuovi ruoli di uomini di governo, sempre ben vestiti, stando attenti ad abbinare i colori degli abiti alle cravatte, sempre più spesso colti in pose seriose, avvezzi ad un linguaggio formale e ormai privo di qualsiasi contenuto reale.



Un’avvisaglia di quanto era profondo lo scontro tra i due si era avuta durante le scorse elezioni amministrative della città di Napoli e intorno alla candidatura di Manfredi. Nella roccaforte del Movimento non era stato possibile convergere su una candidatura che consentisse ai 5Stelle di contenere – eleggendi un proprio sindaco almeno in una città importante – la prevedibile disfatta di Roma e di Torino. Fico si rifiutò di candidarsi e Di Maio ne fu molto contento.

Le ragioni di questo conflitto personale sono da ricercare nei luoghi delle radici politiche dei due leader. Fico è espressione di quella sinistra radicale, benestante e benpensante, tipica dei quartieri borghesi napoletani. Sani principi ma concretezza zero. Di Maio è l’erede autentico di quella provincia napoletana democristiana, che non ha mai perso di vista le due cose più importanti della politica: i voti e la gestione del potere. Se ora seguiamo le loro orme capiremo più facilmente come essi intendono muoversi nei prossimi mesi.

L’anima rimasta fedele al Movimento è quella di sinistra, radicale e massimalista, che Fico – più che Conte – può interpretare alla perfezione. Una somma di luoghi comuni che hanno alimentato la sinistra di base nel nostro paese, sempre in bilico tra il PCI e la sinistra più estrema. E lì resterà. C’è sempre stato uno spazio lasciato libero a sinistra dalla evoluzione del partito democratico come partito di centro-sinistra. Troveremo lì quello che resta del Movimento, e accanto a Fico ritroveremo Conte e Di Battista.

Il nuovo gruppo fondato in fretta e furia da Di Maio – composto soprattutto da amministratori locali – ha invece tolto le vele e ora si dirige senza esitazioni verso l’area politica che più gli addice, il centro “democristiano”. Un luogo “politico” oggi non ben definito e soprattutto avaro di voti, ma è proprio quello che Di Maio spera di poter smentire. Ne vedremo delle belle ora che questa area si sta affollando di generali in cerca di eserciti: da Calenda a Renzi, da Giorgetti a Sala.

Il PD trova in quello che sta succedendo l’ulteriore prova della necessità della sua esistenza. Se non ci fosse il PD, bisognerebbe creare un partito a sola vocazione governativa, di cui un paese come il nostro non può fare a meno. Per questo motivo il PD si propone di creare alleanze e smussare le asprezze programmatiche di chiunque si trovi alla sua destra e alla sua sinistra, forte del suo “programma universale” che consiste nell’indicare poche cose ma che – storto o morto – vanno fatte comunque. Insomma, il PD si rafforza come partito-additivo, partito-cric, cioè il luogo dove tutto si addensa, tutto trova un punto di appoggio.

Letta ha l’occasione di dimostrare che la sua prospettiva di “campo largo” – o se preferite di “campo vasto” – non era una espressione usata solo per prendere tempo ma addirittura una analisi preveggente di cosa sarebbe diventato il “campo politico” italiano pochi mesi prima del voto. E più si frantumeranno partiti e schieramenti, più diventerà forte la prospettiva di chi vuole unire e non dividere. Legge elettorale permettendo.

La guerra in Ucraina ha riacceso nell’opinione pubblica italiana il tema dell’appartenere ad un campo internazionale definito (l’Europa, la NATO, l’Atlantismo) e che – a costo di turasi il naso come facevano i nostri padri e nonni – bisogna votare per chi meglio garantisce che da questo campo non si esce. Tutti coloro che hanno avuto rapporti con Putin e che cincischiano su dare o meno soldi e armi ai nostri alleati sono avvisati, su questa strada potranno al massimo stare all’opposizione.

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