Da ieri sera in Parlamento c’è un partito in più, “Insieme per il futuro”, che i maligni a 5 Stelle hanno già ribattezzato “Insieme per il futuro di Luigi Di Maio”. Non se ne sentiva la mancanza. Ma la neonata formazione ha già conquistato un record: ha demolito ciò che restava del primo gruppo parlamentare formatosi nel 2018 riducendolo ufficialmente a una brigata di retrovia. Sono oltre 60 i seguaci del ministro degli Esteri, un grosso danno per Giuseppe Conte, il quale doveva essere il rifondatore del movimento grillino mentre passerà alla storia come il suo affossatore. Da oggi lo scettro di prima forza politica in Parlamento passa alla Lega di Matteo Salvini.
L’annuncio di Di Maio è arrivato al termine di una giornata drammatica per i 5 Stelle, caratterizzata dal voto sull’informativa al Senato del premier Mario Draghi e dalla resa di Conte. Per settimane l’ex premier aveva tirato la corda con il governo e alla fine si è allineato. Can che abbaia non morde. Il morso invece è arrivato da Di Maio che ha colto il momento per sfilarsi dalla leadership di un “non leader” quale si sta dimostrando Conte e dalle regole di un movimento che era nato per distruggere le regole altrui a colpi di “vaffa”. Di Maio non dovrà più tagliarsi le indennità, sgombrare il campo dopo il secondo mandato né sottoporsi alle forche caudine della piattaforma Rousseau e ossequiare il suo concittadino Roberto Fico, che negli ultimi giorni l’aveva criticato con grande asprezza. Avrà le mani libere per trattare la rielezione, alle prossime politiche, nel “campo largo” di Enrico Letta e consoliderà, presso le cancellerie europee e di riflesso anche negli ambienti Usa, la sua piena conversione all’atlantismo e all’europeismo: “Non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi”. L’esatto opposto di quello che Di Maio era quattro anni fa, quando da vicepremier solidarizzava con i gilet gialli francesi e aiutava il governo Conte 1 a tessere accordi con la Cina.
Le parole con cui il ministro degli Esteri ha detto addio al M5s, in una conferenza stampa nella tarda serata di ieri, grondano dolore. Una “scelta sofferta” ma obbligata, perché “alcuni dirigenti del movimento hanno rischiato di indebolire il Paese con le loro posizioni incerte e ondivaghe”. Invece “dovevamo scegliere da che parte stare della storia, con l’Ucraina e con la Russia”, perché “la guerra non è uno show mediatico”: la presa di distanza di Conte da Draghi obbedisce infatti, secondo Di Maio, alla necessità di riguadagnare visibilità e consensi. Non è mancato il riferimento all’esperienza positiva dei sindaci: non è un mistero che Di Maio guardi a Giuseppe Sala e alla galassia dei centristi di sinistra, un’area per ora piuttosto ristretta dove sgomitano da tempo Matteo Renzi e Carlo Calenda.
Draghi ha risposto con un secco “no” a chi gli chiedeva se fosse preoccupato per il destino del governo. Dopo il voto di oggi, per la verità, non avrebbe più molto da temere da parte di Conte, che ha ammainato la bandiera della protesta pacifista. E la nascita di Insieme per il futuro ridimensiona la fronda interna alla maggioranza. Di Maio si è detto saldamente draghiano e si unisce al coro di chi immagina la permanenza a Palazzo Chigi dell’ex presidente della Bce anche nella nuova legislatura, un Draghi bis. Conte non può più far cadere il governo, non perché gli manchino i numeri ma perché se si votasse a ottobre verrebbe quasi certamente spazzato via. Tutta salute per Draghi.
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