In tempi turbinosi l’incrocio fra cronaca micro e macro è spesso sorprendente e provocatorio.
Da sabato l’Inghilterra profonda – da Manchester a Liverpool, da Bristol a Nottingham – è scossa da violenti scontri di piazza. Decine di poliziotti sono stati feriti nel contenimento di manifestazioni contro l’immigrazione (a loro volta contrastate da cortei antirazzisti). Le proteste hanno voluto rispondere all’assassinio a colpi di coltello di tre bambine, lunedì scorso durante una festa a Southport, poche miglia a nord di Liverpool. Accusato di un atto di massima brutalità – per ragioni ancora non note – è un 17enne nato in Inghilterra da immigrati dal Ruanda. Il suo nome, inizialmente non rivelato dalla polizia, è filtrato attraverso i social media, con appiccicata la notizia, risultata poi falsa, che si tratterebbe di un richiedente asilo di fede musulmana (alcuni media britannici hanno chiamato in causa l’azione di “troll” russi, altri il ruolo di X di Elon Musk).
Quel che è certo è che i “riots” sono stati innescati da movimenti di estrema destra populista e xenofoba: animati anche dal recente successo elettorale del leader Nigel Farage, eletto lo scorso 4 luglio per la prima volta ai Comuni. Il caso Southport rappresenta d’altronde un primo e inatteso banco di prova per il nuovo gabinetto laburista guidato da Keir Starmer, al potere dopo 14 anni di governo conservatore.
L’esito del voto, con il sistema maggioritario inglese, ha visto il Labour strappare due terzi di seggi in Parlamento, pur avendo riscosso solo il 33,7% del voto popolare (con un contenuto progresso assoluto rispetto al 2019). Reform, il partito di Farage ha invece conquistato meno dell’1% dei seggi ai Comuni, ma raccogliendo in boom il 14,3% dei voti: più del 12,2% di “score” dei liberaldemocratici, che hanno visto eletti ben 72 deputati. La prova di quanto “il popolo di Farage” sia radicato nel Regno Unito si era comunque avuta in misura clamorosa già nel 2016 al referendum Brexit: in cui il tradizionale euroscetticismo al di là della Manica si era mescolato con crescenti tensioni socio-economiche che la pandemia e la crisi geopolitica hanno solo acuito. Il successo annunciato dei laburisti è stato costruito su lunghe campagne di scioperi, soprattutto nella sanità pubblica e sul versante critico della protezione salariale dall’inflazione.
Ora tutti i dossier sono in mano a Starmer e alla sua vicepremier Angela Rayner, battagliera leader dell’ala radicale del Labour, nata in un sobborgo emarginato di Manchester. E fra i nodi più intricati – a fianco del possibile riavvicinamento del Regno Unito alla Ue – c’è sicuramente quello dell’immigrazione: che invano i Governi conservatori hanno cercato di risolvere con misure più o meno draconiane. Non hanno funzionato né malfermi accordi finanziari con la Francia, né i respingimenti “manu militari” nella Manica e tanto meno i plateali progetti di deportazione degli immigrati illegali in Ruanda.
Per paradosso, è ora un figlio di immigrati ruandesi ad aver virtualmente accoltellato alle spalle anche il nuovo Governo laburista: che starebbe già valutando la richiesta di poteri di stato d’assedio per il mantenimento dell’ordine pubblico se i disordini dovessero degenerare. Nel frattempo sta già svanendo – in modo anticipato e imprevisto – l’effetto “luna di miele” che aveva accolto il ritorno a Londra di un Premier della sinistra moderata, dopo la movimentata stagione “tory” dominata da Boris Johnson. Una prospettiva nella quale sembrava praticabile anche una via pragmatica di gestione dei flussi migratori.
L’allarme per il ritorno in piazza del populismo di destra ha messo in allarme anche la comunità ebraica inglese: che ha anzitutto deplorato le fake news sulla matrice islamica degli omicidi di Southport e le minacce dei manifestanti ai luoghi musulmani. Appare tuttavia un sotto-fronte del “caso Southport” ulteriormente delicato per il Governo Starmer.
Il Labour è tradizionalmente critico verso la politica israeliana nei Territori palestinesi. L’ex Premier Tony Blair è stato uno dei padri dell’opzione “Due Stati” in Medio Oriente. Il predecessore di Starmer, Jeremy Corbyn, ha perso la leadership del partito anche per le accuse aperte di antisemitismo giuntegli sia dalla comunità ebraica britannica, sia da Gerusalemme. Sono state in ogni caso le fila della sinistra ad alimentare le grandi manifestazioni pro-palestinesi che hanno punteggiato anche la Gran Bretagna dopo il 7 ottobre.
Starmer stesso – in campagna elettorale – ha tenuto sulla questione un profilo basso, beneficiando del fatto che la politica estera inglese sulla crisi israeliana fosse responsabilità dei conservatori. Al suo esordio non ha però eluso le aspettative di un cambio di rotta rispetto all’appoggio di base di Londra al Governo israeliano nella guerra di Gaza. Downing Street ha annunciato che Londra non intende opporsi alla richiesta della Procura della Corte Internazionale di Giustizia di mandato di arresto per il premier Bibi Netanyahu per sospetto geonocidio. E negli ultimi giorni i due nuovi ministri laburisti agli Esteri e della Difesa sono volati a Gerusalemme: con l’obiettivo di rinnovare la pressione sul Premier per un cessate il fuoco a Gaza e per una de-escalation nel confronto con l’Iran. Dunque: una Londra neo-laburista più decisa contro un Governo di estrema destra, accusato di razzismo antipalestinese e di nazionalismo religioso anti-islamico, oltreché di crescente autoritarismo repressivo contro le proteste interne.
Ieri, intanto, un efferato accoltellamento per strada in Israele è costato la vita a due abitanti di Holon, un sobborgo di Tel Aviv. Altre due persone sono state ferite, poco prima che l’attentatore fosse abbattuto dalla polizia a colpi d’arma da fuoco. Il terrorista – palestinese, non noto alle forze dell’ordine israeliane per episodi precedenti – veniva da un villaggio dei Territori cisgiordani ed era riuscito a penetrare illegalmente in Israele.
Poco dopo l’episodio il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Givr – il più estremista fra i componenti del Governo Netanyahu – ha arringato la folla a Holon, Ha rinnovato l’appello ad “armarsi per combattere nelle strade, non solo l’Iran”. Ben-Givr ha rammentato che sono stati distribuiti alla popolazione civile 150mila fucili “per espandere la formazione di squadre di sicurezza” comunitaria”.
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