Pomeriggio di tensione nei pressi di Montecitorio, con il centro di Roma praticamente blindato dalle forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa per fronteggiare la protesta organizzata dal movimento “IoApro”, gli esercenti che chiedono la riapertura delle attività commerciali bloccate dall’emergenza Covid. Un gruppo di manifestanti – tra cui alcuni esponenti di CasaPound – si è staccato dal sit-in e ha cercato di raggiungere il Parlamento, lanciando petardi e oggetti contro la polizia, che ha risposto con una carica. E’ la seconda volta che i ristoratori, esasperati da un anno di chiusure e mancati guadagni, scendono in piazza al grido di “libertà, libertà” e “lavoro, lavoro”.
Tra i cartelli esposti “Dalla padella di Conte alla brace di Draghi” oppure “Ristori inferiori al reddito di cittadinanza, vergogna”. Una protesta destinata a continuare: “Possiamo venire qui anche domani. Non molliamo”, come annunciano su Facebook gli organizzatori. Proteste e scontri si erano già verificati una settimana fa. Quanto preoccupa questa situazione? “La situazione è molto grave – risponde Marco Accornero, segretario generale dell’Unione artigiani di Milano e Monza-Brianza -, perché occorre tenere conto del fatto che la crisi ha sì colpito tutti, ma non nella stessa misura. I dipendenti, per il momento, hanno più o meno avuto un reddito garantito, vuoi perché hanno un impiego pubblico o lavorano in aziende che non hanno chiuso, vuoi perché hanno ricevuto la cassa integrazione. Vero che la Cig non è retribuzione piena, ma è comunque un reddito che gli si avvicina”.
Dove nasce la protesta di commercianti e ristoratori?
Ci sono imprenditori che hanno perso gran parte o tutto il loro reddito, dopo mesi e mesi di inattività o di attività a scartamento ridotto. E’ una condizione di disperazione che può portare anche ad atti inconsulti. Si tratta di attività dove, oltre a non incassare un euro, si debbono continuare a sostenere delle spese: di affitto, di manutenzione ordinaria degli impianti, di alcune bollette perché non si possono staccare tutte le utenze. Sono quindi imprenditori penalizzati due volte, perché spendere senza incassare vuol dire fare debiti, mettere mano ai risparmi di una vita, ipotecare magari la casa per cercare di mantenere viva l’attività in attesa della ripresa. Ma più questa attesa si allunga, più la disperazione aumenta.
Si può gestire questa disperazione?
Noi invitiamo alla calma e a mantenersi sempre nei limiti della legalità, ma questa disperazione non può essere sottovalutata.
Che danni hanno lasciato il Covid, l’emergenza, i lockdown?
Il Pil è calato del 10%, cioè 190 miliardi andati in fumo. Il guaio però è che non si può fare una media uguale per tutti: ci sono categorie che hanno perso tra il 60% e il 90% dei propri ricavi, mentre le spese non sono diminuite in proporzione, anzi superano le entrate modeste registrate durante i piccoli periodi di riapertura.
E’ una protesta che può dilagare e finire fuori controllo?
Il rischio obiettivamente c’è, dipende da quanto dureranno ancora le chiusure e da quanto forte sarà poi la ripresa. Non basterà dire: si può riaprire. Occorrerà che le persone tornino a consumare e a ricreare reddito. Non è scontato, perché il Covid ha lasciato segni sul tutto il tessuto produttivo e occupazionale del paese.
C’è il timore che possa allargarsi in maniera irreparabile la frattura fra garantiti e non garantiti?
Sì, i dati sono oggettivi e queste fratture sociali fanno parte della storia economica. La speranza è che la ripresa, auspicata da tutti i previsori nel secondo semestre, la campagna vaccinale e le riaperture contribuiscano a sedare gli animi, perché si torna progressivamente alla normalità. Attenzione, però: un anno di chiusure e di debiti e magari una ripresa meno brillante potrebbero portare migliaia di imprese alla chiusura, con migliaia di imprenditori e loro famiglie sul lastrico.
Dal vostro punto di osservazione si contano già tanti fallimenti e chiusure definitive?
Nel settore dell’artigianato, per il momento non abbiamo visto chiusure di massa. Ma parliamo di un settore dove l’identificazione tra impresa e famiglia è molto forte e ciò vuol dire che l’imprenditore prima di abbassare definitivamente la serranda ci pensa non una, ma cento volte.
Quindi?
Adesso, facendo debiti e consumando i risparmi, si cerca di tenere in piedi l’impresa nella speranza che ci si possa riprendere, ma questo non deve trarre in inganno, inducendoci a dire: hanno superato il momento critico. Lo stanno affrontando non tanto con gli aiuti dello Stato, ma mettendo denaro proprio. Se la durata della crisi si protrarrà ancora e tornassero nuovi periodi di lockdown, è chiaro che le imprese inizieranno a saltare.
A proposito di aiuti, il governo Conte e quello attuale hanno messo in campo ristori per 140 miliardi…
Questa cifra comprende tutto il cumulo degli indennizzi, compresa la cassa integrazione, che assorbe la gran parte delle risorse. Ma gli aiuti arrivati a queste categorie sono modestissimi, per non dire irrisori. E va tenuto presente un fatto importante.
Quale?
Per il dipendente la cassa integrazione si traduce in soldi netti, reddito disponibile; per un ristoratore l’indennizzo va a colmare una falla, coprendo parzialmente le spese che sta sostenendo, ma poi in tasca per andare a fare la spesa al supermercato non gli resta granché.
Che cosa bisognerebbe fare per evitare nuove proteste?
Innanzitutto, bisogna consentire le riaperture, seppur limitate: meglio fare metà o un terzo dei coperti o aprire con accesso contingentato dei clienti che niente. In secondo luogo, bisogna prorogare di altri sei mesi-un anno la moratoria delle rate di pagamento dei finanziamenti, che dovrebbe scadere a fine giugno, dando così il tempo agli imprenditori di ricostituire un po’ di liquidità. Infine, è assolutamente necessario accelerare le vaccinazioni: è sconfortante vedere che Stati Uniti e Gran Bretagna sono sulla via della riapertura generale.
Come dovrebbe essere strutturato il prossimo decreto ristori per aiutare veramente queste categorie?
Dovrebbero essere messe sul piatto cifre più consistenti rispetto ai precedenti decreti ristori, come hanno fatto Germania, Usa e Regno Unito. E poi vanno bilanciate le risorse, che in precedenza hanno favorito troppo il reddito fisso e il lavoro dipendente: chiediamo di essere un po’ meno generosi sulla cassa integrazione e un po’ più generosi con gli imprenditori.
Non bastano le parole di Draghi che ha rassicurato di voler andare verso un periodo di aperture e non di chiusure?
Mi sembra nella logica delle cose, visto che si va verso l’estate, periodo in cui il virus è meno contagioso, e che la campagna vaccinale procede, anche se non ai ritmi sperati, il che dovrebbe ridurre i casi di infezione e di letalità. Tutto però dipende dal quando, perché c’è una bella differenza se le riaperture scatteranno tra 15 giorni o fra tre-quattro mesi. In quest’ultimo caso, sarebbe un colpo mortale per molti imprenditori.
(Marco Biscella)
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