Archiviata trionfalmente (per le sorti del governo) la mozione di sfiducia al ministro Bonafede, la vicenda legata alle dichiarazioni di Nino Di Matteo nei confronti del ministro non può tuttavia scivolare nell’oblio con altrettanta leggerezza. La cronaca deve lasciare il posto alla riflessione e la riflessione deve condurre, in qualche maniera, alla comprensione di una vicenda che definire torbida e oscura appare eufemistico. Vicenda che ben si inserisce nella attuale crisi scoppiata in seno all’Anm e alla diffusione delle intercettazioni del pm Palamara, che a loro volta fanno da sfondo all’assoluto stallo in cui versa la giustizia italiana – ben lontana dall’avvio della fase 2.



Un paese civile degno di questo nome deve pretendere di capire cosa si celi dietro quelle così particolari esternazioni fatte in diretta televisiva da un consigliere del Csm in carica nonché pubblico ministero della Direzione nazionale antimafia nei confronti di un ministro del Governo in carica. I cittadini, per quanto stremati dalla clausura e avvolti in seri problemi economici, hanno il diritto di capire chi fra i due contendenti abbia mentito all’opinione pubblica.



Necessario mettere un pizzico di ordine. Le dichiarazioni di Di Matteo interessano un duplice ambito di aspetti: quello che potremmo dire politico e quello che potremmo definire giudiziario.

Sul secondo aspetto, urge mettere subito in assoluto rilievo, cosa di cui troppo poco si è parlato pur nel mare di commenti che hanno avvolto la vicenda in questione, che ciò che è stato riferito attraverso la diretta televisiva rappresenta una potenziale notizia di reato.

Posto che evidentemente uno dei due abbia mentito all’opinione pubblica e continui a farlo, se fosse fondata l’accusa rivolta da Di Matteo al ministro Bonafade, essa corrisponderebbe a una grave condotta di subalternità nei confronti delle mafie. Per molto meno si sono intentati processi per concorso esterno o quanto meno per favoreggiamento. Se fosse riscontrata l’accusa rivolta al ministro, essa sarebbe da iscriversi nel filone delle azioni che hanno ispirato il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ben nota a Di Matteo per averne coordinato le indagini e sostenuto l’accusa in giudizio. Sarebbe quindi da comprendere, senza esitare un solo minuto, perché la notizia è stata rivelata dal diretto interessato solo dopo due anni e in sede televisiva invece di farne subito oggetto di approfondimento investigativo.



Se, al contrario, quanto riferito fosse falso, esso corrisponderebbe a una (solo apparentemente meno grave) condotta diffamatoria a mezzo stampa quando addirittura di calunnia. In questo caso viene allora da chiedersi perché il ministro si sia limitato a difendere il suo onore in Parlamento e non anche in altre sedi.

C’è poi un altro piano. Quello squisitamente politico. Per certi versi più semplice, ma solo apparentemente. Ebbene, se la scelta del ministro di accantonare Di Matteo come guida del Dap non ricadesse in una condotta illecita ma fosse pur sempre realmente accaduta, essa rappresenterebbe un gravissimo atto politico di viltà, che forse per un ministro della Giustizia rappresenterebbe ignominia anche peggiore. Della scelta del ministro, tuttavia, si è discusso in Parlamento e il Parlamento sovrano ha confermato la piena fiducia al ministro all’esito della spiegazione da questi fornita di non aver in nessun caso accantonato la scelta di Di Matteo per ragioni di convenienza mafiosa. 

La rivelazione formulata da Di Matteo non può tuttavia essere in nessun caso catalogata fra i fatti neutri e qualunque sia la verità, emerge in tutta la sua drammaticità il problema dello scollamento fra le istituzioni dello Stato. Se, come ha ritenuto il Parlamento, il ministro ha fornito una spiegazione convincente che non mette in discussione la bontà delle sue scelte, delle due l’una: o Di Matteo ha agito in buona fede nel fornire la sua versione e quindi non ha ben capito i termini della proposta ricevuta, cosa che ne metterebbe in seria discussione le sue capacità cognitive, o Di Matteo ha, per qualche ragione da comprendere, voluto lanciare un messaggio, rivendicando una sorta di controllo etico sulle scelte del ministro.

In tutti i casi, da qualunque punto di vista la si voglia guardare, le ferite che quelle dichiarazioni hanno aperto alimentano un clima di sospetto che le istituzioni di un paese serio dovrebbero preoccuparsi di dissipare più che rapidamente. Le dichiarazioni rilasciate dal pubblico ministero alimentano la sensazione, francamente pericolosa, che la magistratura ritenga di poter esercitare sulla politica a cui è affidato il governo del paese una sorta di tutela. Una implicita affermazione di supremazia etica che i recenti e continui scandali sulla gestione delle nomine da parte del Csm sta rendendo sempre più erronea oltre che perniciosa.

Se il Parlamento si è occupato della vicenda, chiamando a riferire il ministro, altrettanto non ci risulta abbia fatto l’organo di autogoverno della magistratura nei confronti del pubblico ministero. Su questo aspetto si è francamente scritto troppo poco, pur in un profluvio di commenti e analisi dell’accaduto.

Per tutto queste valutazioni, la discussione sulla mozione di sfiducia non può e soprattutto non deve bastare ad archiviare una faccenda del genere. Resta l’incontrovertibile considerazione che uno dei due, e non due cittadini qualunque, mente, e noi abbiamo diritto di sapere chi dei due lo ha fatto.

Di fronte a questo, non si può mostrare indifferenza. Uno, tra un magistrato-icona della lotta alla mafia nonché membro dell’organo di autogoverno della magistratura e un ministro della Giustizia che della lotta alla mafia e alla corruzione si vuole fare icona, avendo ispirato una legge trionfalmente chiamata “spazzacorrotti”, ha preso in giro il paese.

L’accusa rivolta da Di Matteo al ministro Bonafede non deve finire nell’apoteosi del vago.

Da addetto ai lavori, non riesco ad immaginare un modo peggiore di questo per riavviare, dopo mesi di blocco del paese, una macchina giudiziaria in grande difficoltà già di suo. Qualcuno, il cui nome non oso nemmeno evocare per sommo rispetto, nei giorni della commemorazione della sua tragica fine avrà vissuto con molta amarezza quanto è accaduto. 

L’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, richiede una serietà assoluta che questa vicenda mette seriamente in discussione. Aspettiamo e pretendiamo che venga fatta vera chiarezza. Aspettiamo e pretendiamo che si palesi, da parte della politica, una reale visione nuova dell’amministrazione della giustizia per il nostro paese, partendo da una radicale riforma dell’organo di autogoverno della magistratura. La fiducia che il Parlamento ha rinnovato al ministro si trasformi in un nuovo slancio riformista, altrimenti la fiducia dei cittadini nelle istituzioni giudiziarie precipiterà ben sotto la soglia dell’accettabile.