“Non c’è maggior disparità nel matrimonio che l’incompatibilità di anima e di proposito”: il monito di Charles Dickens nel suo “David Copperfield”, romanzo morale e sentimentale quanto pochi altri, risulta applicabile come un guanto alla coppia di fatto Salvini-Di Maio. Giustamente, le cronache politiche restituiscono la diretta di questi inusitati format dialettici che sono diventati i consigli dei ministri “salvo intese”, salsiccioni di cavilli intessuti da antagonisti telecomandati, a coprire appunto l’incompatibilità di anima e di propositi che abissalmente ormai divide i due partiti alla guida del Paese. E dunque questa diretta politica è ormai veramente e soltanto una rassegna di dettagli inutili rispetto alla sostanza che non funziona.



La sostanza è che i Paesi che Lega e Cinquestelle rappresentano sono due delle varie Italie coesistenti nel nostro popolo, molto più diverse tra loro e incompatibili di quanto l’imbastitura di convenienza rappresentata dal contratto di governo abbia cercato di rappresentare. Più identitario, l’elettorato di centrodestra che acclama Salvini chiede misure orientate all’autonomia dell’iniziativa privata, alla detassazione, alla sburocratizzazione, alla liberazione delle imprese dai vincoli del sistema e alla meritocrazia nell’amministrazione periferica dello Stato. Come non condividere queste istanze? Più raffazzonato e composito, oltre che divenuto largamente minoritario nel Paese reale, l’elettorato grillino chiede difesa zelante dell’ambiente, giustizia severa, tasse progressive, welfare soccorrevole, tutele per gli enti locali meno performanti. Anch’esse richieste condivisibili. Ma appena dai massimi sistemi si fa anche un solo passo nella concretezza si constata dolorosamente come queste istanze siano appunto inconciliabili.



Quindi non di mediazione nel merito si può mai parlare – a proposito di quanto il Governo giallo-verde ha fatto in questo suo primo anno – ma di pendolarismo concessorio, un metodo paranoideo, in base al quale una volta Di Maio cede a Salvini accollandosi poi la gestione dei mugugni della sua base, e la volta dopo Salvini cede a Di Maio, facendo lo stesso con la sua. Finora ha funzionato – per modo di dire – così. Male, ma qualche risultatino l’ha portato: i detrattori senza se e senza ma di tutte le iniziative di Conte e compagni dovrebbero riguardarsi l’album del governo Renzi prima di parlare. Ma ha funzionato con costi altissimi di compromesso, politico, sociale ed elettorale, questi ultimi a danno dei Cinquestelle. Non è affatto pacifico che il metodo delle concessioni pendolari possa funzionare anche sulla giustizia.



Su questo terreno, infatti, la distanza tra Lega e Cinquestelle è, si può dire, cromosomica. La Lega ha condiviso sostanzialmente il ventennio di battaglie politico-giudiziarie combattute da Silvio Berlusconi contro i magistrati e la “giustizia reale” del Paese. Nei fatti, il Cavaliere sosteneva una serie di istanze sacrosante, ma era il portavoce meno adatto per sostenerle, e difatti nonostante il suo potere non ha ottenuto nulla di quel che avrebbe desiderato ed è stato sconfitto sul campo fino alla condanna penale in giudicato e alla pena – alternativa alla galera ma pur sempre infamante – dell’affidamento ai servizi sociali. Miglior regalo alla magistratura che affligge il Paese, in larga parte inefficiente e inadeguata, non avrebbe potuto essere fatto: un portavoce impresentabile a rappresentare istanze sacrosante è la garanzia del naufragio di queste istanze. Nessuna predica viene ascoltata se arriva dal pulpito sbagliato.

Ma la Lega, non ancora “di Salvini” però comunque frequentata dall’attuale vicepremier che ne era quadro alto e obbediente, ha sempre e comunque sostenuto quel portavoce impresentabile, sottoscrivendo dunque una linea riformista votata al fallimento proprio per l’impresentabilità del patrocinatore. Quindi nulla è cambiato, in vent’anni, se non in peggio. Tempi giudiziari biblici, sentenze imprecise e convulsamente riscritte nei vari gradi di giudizio, arbitrii inammissibili, abusi delle misure cautelari, lottizzazione politico affaristica del potere giudiziario, come la casuale esplosione del bubbone Palamara-Lotti si è provvidenzialmente incaricata di dimostrare agli italiani.

Quindi nel merito qualsiasi modifica all’ordinamento giudiziario non potrebbe che migliorare il disastro.

Già: però i Cinquestelle quest’evidenza non potranno condividerla mai. Hanno mietuto voti nelle fasce antagoniste della popolazione, che considerano “tutti mariuoli” i potenti e i ricchi, a prescindere da qualsiasi merito. Che manderebbero in galera a scatola chiusa e preventivamente chiunque abbia firmato una sola licenza edilizia. O abbia un reddito superiore ai cinque zeri. Che, in sostanza, scandiva a ogni pie’ sospinto “O-ne-stà, o-ne-stà” come slogan elettorale qualificante. Senza chiedere null’altro che la “piazza pulita” non a caso evocata anche dal titolo di un talk-show di successo per quel pubblico.

E dunque? Dunque non si può andare avanti così. E a parte che gli appassionati della speculazione politica, gli scacchisti della mediazione permanente, e i difensori della poltrona acquisita, la gente comunque e perbene, che segue marginalmente i lavori di governo e Parlamento com’è normale che sia, semplicemente inizia a provare fastidio e un filo di disgusto. Staccare la spina a quest’accrocchio ribollente dovrebbe essere l’ultima, o la prima, istanza etica tanto di Di Maio, quanto di Salvini. Il non farlo porta soltanto acqua al mulino del non-voto o di peggiori estremismi.