Raccontano i retroscena dei giornali di una Meloni imbufalita per la zuffa che il guardasigilli Nordio ha acceso con l’Associazione nazionale magistrati non appena il disegno di legge di riforma della giustizia è uscito dal Consiglio dei ministri. Ricostruzioni non smentite, che segnalano per la prima volta una presa di distanza da uno dei ministri che la premier ha più fortemente voluto, un magistrato che ha sempre criticato le storture dell’ordine cui apparteneva, una persona credibile, perché in grado di mettere le mani dove vanno messe.



In altre parole: se c’era qualcuno in grado di concretizzare il sogno coltivato da sempre dal centrodestra di riformare la giustizia nel profondo, riequilibrando i poteri dello Stato, quello era Nordio. La sua improvvida uscita rischia di rivelarsi un freno. Come minimo una ragione di rallentare, anche per le preoccupazioni che potrebbero essere espresse dal Quirinale.



Non si tratta solo delle norme previste dal disegno di legge appena varato (e che ora deve fare tutto l’iter parlamentare). Nel testo c’è parecchio, ma non tutto. Cancellazione del reato di abuso d’ufficio, ridimensionamento di quello di traffico d’influenza, limiti alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, freno ai ricorsi in appello dei pm sono certo elementi che, se approvati, cambieranno molte cose. Ma in ballo c’è molto di più. Il bersaglio grosso, lo sanno tutti, è la separazione delle carriere fra pubblici ministeri e magistrati giudicanti. Il ddl Nordio è solo il primo passo.



In prospettiva l’aspirazione è quella di una rivoluzione copernicana, ed i consensi per arrivarvi valicano sulla carta i confini della maggioranza, coinvolgono il terzo polo ed anche qualche anima moderata del Pd. Persino il Quirinale non sembra essere pregiudizialmente contro, a certe condizioni. Mattarella ha sempre parlando di un unico ordine giudiziario,  ma di funzioni differenti. Certo, se venisse rispolverata la vecchia idea di sdoppiare il Consiglio superiore della magistratura, il Colle avrebbe molto da ridire.

Della necessità di una profonda riforma della magistratura il Capo dello Stato è convinto da tempo, quantomeno da quando, nel 2020, il caso Palamara ha portato a galla tutto il marcio delle correnti. Da allora Mattarella ha martellato le toghe con continui richiami al recupero di un’etica corretta. Anche nelle ultime settimane per almeno due volte ha insistito sulla sobrietà dei comportamenti, perché è necessario apparire imparziali, oltre che esserlo.

La magistratura non è mai apparsa così debole, come nell’ultimo triennio. Dagli scandali fatica a riprendersi, pur rimanendo potente. Al suo interno, nell’Anm, non c’è più quel monolitismo consociativo che l’ha caratterizzata per decenni. Ecco perché l’uscita di Nordio rischia di mettere a rischio un’occasione d’oro per la riforma. Si pensi al plauso dei sindaci Pd per l’abolizione dell’abuso d’ufficio, o alle difficoltà della Schlein che se si avvicina a Conte perde pezzi al centro, con l’ex candidato alla Regione Lazio, Alessio D’Amato, che si dimette dall’assemblea nazionale, ma sembra prossimo a lasciare proprio il partito.

La morte di Berlusconi, poi, avrebbe dovuto semplificare la strada della riforma, ma dedicargli il disegno di legge, come ha fatto il ministro, certo non aiuta. Rischia di far ricompattare la galassia delle toghe, proprio nel momento in cui Palazzo Chigi sembrava impegnato in un’opera di tessitura per portare dalla propria parte almeno un pezzo della magistratura. Non si dimentichi che un altro magistrato, Alfredo Mantovano, è il braccio destro della Meloni.

Per non vanificare l’opera di mediazione messa in campo da Palazzo Chigi c’è tempo, durante la discussione parlamentare. Ulteriori passi falsi non sono però immaginabili. Nordio, è il messaggio che viene dall’inner circle della Meloni, deve ricordarsi dei limiti del suo ruolo. Lui è il tecnico che deve scrivere norme solide, come ha dimostrato proprio con il disegno di legge appena approvato dal governo. Il clima di scontro all’arma bianca è esattamente il contrario di quel che occorre per arrivare a ridefinire il mondo della giustizia.

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