La difficile situazione della pandemia di coronavirus, oltre che porre infiniti problemi di natura scientifica e organizzativa, sta facendo discutere anche il mondo del diritto. Molteplici le questioni sul tappeto a partire dal ruolo del Parlamento, non solo sostanziale ma anche formale: quali provvedimenti andrebbero votati dal Parlamento prima della loro emanazione, soprattutto se limitativi della libertà di circolazione e di iniziativa economica? È possibile, sul piano formale, avere una Parlamento “virtuale” che vota in remoto? E molti altri ancora.
Se giustamente si dice che non si possono opporre questioni così specifiche o anche di ampio respiro ma, tutto sommato, ininfluenti rispetto alla gravità della situazione, è tuttavia giusto essere consapevoli, come cittadini, che tali discussioni hanno un riflesso importante sul nostro vivere civile, vivere che deve restare civile nonostante l’emergenza.
Solo per mettere qualche sponda al dilagare delle discussioni, si può osservare che tali problemi sorgono perché non esiste nella Costituzione italiana una regolamentazione dello stato di emergenza e dello stato di necessità. Annosa questione che fa discutere i costituzionalisti dai tempi di Carl Schmitt, secondo cui è sovrano chi decide dello stato di eccezione (Ausnahmezustand), la mancata codificazione costituzionale di che cosa dovrebbe avvenire in tal caso lascia aperte molte questioni, prima tra tutte quella relativa appunto al ruolo del Parlamento, il quale, pur in assenza di una disposizione specifica, è per Costituzione chiamato a deliberare sullo stato di guerra e conferire al Governo i poteri necessari (così art. 78 Cost.). Per non parlare dei decreti legge, che la Costituzione ha previsto per casi straordinari di necessità ed urgenza (preveggenza dei Padri costituenti) ma che sono stati fin qui usati come forma di ordinaria legislazione, con ciò snaturandone la funzione.
L’altro versante del problema è il rapporto tra il potere centrale e le Regioni e, in particolare, della compatibilità di ordinanze regionali che intervengano sull’emergenza. Che rapporto intercorre tra queste e le decisioni del Governo, specie con quelle “annunciate” in comunicazioni informali prima che il testo dei decreti governativi siano conosciuti (prassi assai discutibile, in verità, pur se giustificata sulla base della trasparenza)?
Qui riemerge il tema della distinzione tra competenze statali e regionali, mai risolto, anzi forse aggravato dalla riforma del Titolo V della Costituzione, fonte da sempre di gravi incertezze interpretative. Sentiamo, in merito, svariati richiami all’unità nazionale e alla necessità di lasciare da parte le posizioni politiche personali (i personalismi, in altre parole); appelli pienamente condivisibili. E tuttavia si comprende come, essendo la situazione molto diversa da Regione a Regione, vi sia chi, a livello regionale, sotto la pressione dell’emergenza, si muove in modo autonomo o parzialmente autonomo con atti che rafforzano le scelte fatte dal governo centrale o anche che le anticipano (come nel caso delle scuole chiuse nelle Marche, impegnato, annullato e poi riattivato dalle scelte del Governo).
Più per buon senso che per sottile analisi giuridica è ragionevole che, dove la situazione è più grave, più stringenti siano i provvedimenti restrittivi della libertà dei cittadini e delle imprese, anche a scapito del sistema produttivo che, come tutti affermano, deve però essere in grado di poter ripartire finita l’emergenza. L’unità nazionale sarà garantita soprattutto dalla tempestività dell’azione politica e dall’efficienza degli interventi, non perché “comunicati” ma perché utili a combattere questo inedito e gravissimo stato di necessità, dimostrando che chi li emana ha presente di essere non un sovrano, ma solo il servitore del vero sovrano costituzionalmente definito che è il popolo italiano.