La revoca della concessione per le autostrade che i 5 Stelle vogliono che il governo formalizzi al gruppo Benetton è il classico modo sbagliatissimo e controproducente di varare, a fini propagandistici, una decisione che ha dalla sua alcune buone ragioni ma è intempestiva, maldestra e dannosa agli stessi interessi di chi la propugna.



Ammesso e non concesso che il contratto di concessione preveda una sanzione di simile gravità per un caso di conclamata cattiva gestione, è di solare evidenza che non può in nessun caso essere unilateralmente il governo a stabilire oggi che l’attuale gruppo di gestione di Autostrade abbia davvero la responsabilità del crollo del ponte Morandi: lo stabilirà, se tutto va bene e se il caso non diventerà un’Ustica stradale, la giustizia ordinaria nel consueto comodo lasso di tempo decennale che impiega a decidere.



Decidere invece in sede politica e per le vie brevi è un abuso, senza se e senza ma.

Un abuso che risponde solo all’esigenza politico-propagandistica di trovare il colpevole e infliggergli una punizione esemplare. Dimenticando che i contratti di concessione oggi in vigore sono un ginepraio inestricabile di norme e micronorme scritte a tutela dei concessionari, in quella scellerata temperie degli Anni Novanta in cui parve giusto che lo Stato dovesse spogliarsi subito ed a qualunque sottocosto dei suoi asset, anche quelli come le autostrade che sono “monopolio naturale”, per passarli ai privati, accontentandosi di essere pagato, come nel caso dei Benetton, con i soldi rinvenienti dalle casse stesse e dalla capacità di generare profitti delle società acquisite.



Insomma, i Benetton comprarono Autostrade con i soldi pubblici che vi trovarono dentro. Questi contratti – capestro per lo Stato – ora blindano gli interessi dei concessionari. I quali, peraltro, nel caso dei Benetton hanno (anche qui inestricabilmente) fuso le autostrade italiane con quelle spagnole e con gli aeroporti di Roma, per cui adesso smembrare il mischione significa pestare i calli a decine di migliaia di soci di minoranza italiani e internazionali, pronti alla bisogna a fare class-action. Più cretini di così si muore: ovvero, cosa non si fa per qualche titolo propagandistico.

Stesso discorso per l’altro progetto politico al centro del vertice di maggioranza – ovviamente interlcutorio – svoltosi ieri tra Lega e M5s: l’autonomia amministrativa delle Regioni. È un target talmente caro alla Lega di Salvini da esserne ancora al centro – peraltro, con una formulazione enfatizzata fino ad invocare “l’indipendenza della Padania” – dello statuto.

Ebbene, anche qui siamo alla propaganda pura. La Lega che puntava tutto sul federalismo forte, anzi su un federalismo parente stretto della secessione, è tutt’altra cosa rispetto alla Lega nazionale ed ecumenica che Salvini ha portato al 35% senza peritarsi di raccattare i voti del Sud.

Ha sostituito la “Roma Ladrona” di Miglio e Bossi con i “migranti ladroni”, con i “rom ladroni”, ed ha saputo convertire al Carroccio milioni di elettori lontani mille miglia e secoli di storia e di costumi dalla Lega Lombarda di Legnano e da Alberto da Giussano. Complimenti, ma adesso che autonomia regionale si può costruire, se davvero i voti del Sud servono, come servono, per garantire alla Lega il consenso necessario a governare tutto il Paese? Davvero vogliamo dire che l’autonomia amministrativa del Nord, che in suo nome vuol tenersi in casa il grosso del ”residuo fiscale”, possa piacere agli elettori calabresi e campani che lamentano l’inaridirsi del rivolo costante di soldi che affluisce alle loro casse da quelle centrali dello Stato, rimpinguate proprio dall’afflusso dei residui fiscali del Nord?

Non diciamo assurdità. La Lega che ha vinto i referendum consultivi sull’autonomia nel lombardo-veneto non è la stessa che oggi sta governando il Paese. E a sua volta, come i 5 Stelle su Autostrade, su questo tema fa più che altro propaganda.

Solo che la propaganda senza esiti è come le (altre) bugie: ha le gambe corte. E mostrerà ben presto l’inconsistenza delle sue promesse.