“Non lasciamo alla Chiesa la lotta alla povertà”, ha implorato in un’intervista a Repubblica il povero Nicola Zingaretti, il medico palliativista che sta cercando di rianimare quello che resta della sinistra italiana. Ma ha omesso di aggiungere, il segretario del Pd, che la titolarità di questa lotta – essenziale al dna stesso di una forza politica di sinistra – da qualche tempo appartiene legittimamente, per quanto senza effetti reali apprezzabili, ad un’altra sgangherata e confusa eppure incisiva e potente forza politica: i Cinquestelle. Verso i quali, con tutta evidenza, quest’appello è rivolto, almeno quanto è rivolto ai quadri, ai dirigenti e soprattutto all’élite – chiamiamola così – di quel che resta del più grande partito comunista dell’Europa capitalistica.



Zingaretti è l’uomo giusto per lanciare quest’appello, resta da capire se sia anche al posto giusto. Perché incaponirsi a ripartire dalle ceneri di Marx e di Gramsci potrebbe essere per lui drammaticamente tardivo, e quindi improduttivo, rispetto alla scelta forse disperata ma più nitida di ricominciare da capo, e dall’interno dei Cinquestelle. Che però, agli occhi di chi ha studiato alle Frattocchie, o è stato selezionato da chi vi aveva studiato, restano una specie di ultracorpo stellare, di navicella precipitata sul pianeta da un’altra galassia, attorno alla quale esploratori terrorizzati si aggirano timorosi, incapaci di riconoscere perfino quale sia il portello da aprire per accedere all’interno dell’abitacolo.



L’incontro ravvicinato dell’ultimo tipo che il Pd sta rivivendo in queste settimane pre-elettorali con M5s assomiglia a una scena di un film di fantascienza. O di un horror. Un partito-Nosferatu, ideologicamente e moralmente esangue, che cerca una giovane preda di cui sorbire il sangue fresco per rianimarsi una notte di più.

In queste settimane indecifrabili, dove però i sondaggi rilevano per la prima volta un deflusso di voti dalla Lega (troppo truce per rassicurare i conservatori moderati che prevalgono nel tessuto sociale del Paese); in queste settimane confuse che registrano una migrazione di elettori astensionisti verso una ripresina di Forza Italia e dei Cinquestelle di Di Maio; in queste settimane caotiche, il Pd sta riprendendo a sperare. A sperare in una propria rinascita come forza trainante nell’elettorato, capace – aggregandosi a qualcuno – di ritornare alla guida del Paese.



Già: ma aggregandosi a chi? A un centrodestra berlusconiano, più piccolo e sempre meno identitario, riformulando il patto del Nazareno senza Renzi e senza il Berlusconi che tutti ricordiamo potente fino alla vigilia delle cene eleganti? Un’ipotesi da incubo. O meglio aggregando a sé un M5s che ha ritrovato lo smalto dei vecchi cori per “l’onestà” grazie all’inconsistenza di un Siri e che ha moderato i recenti toni filosalviniani ed anti-immigrati, cioè l’M5s di Di Battista, Raggi e Fico, sensibile al sociale e idiosincratico con il Capitano e le sue felpe neomilitariste ed aggressivamente dispotiche?

Tutto è possibile, nel barattolo di maionese impazzita cui oggi assomiglia la politica italiana. Ma se resta indiscutibile che solo la Lega di Salvini ha in questo momento una struttura e una fisionomia chiare, per discutibili e inquietanti che le si voglia considerare, non si capisce invece se esistano margini, e quali, di quest’aggregazione tra Pd e Cinquestelle che pure in tanti oggi invocano.

Perché non si capisce? Perché le ultime parole d’ordine intellegibili, provenienti dalle parti del Pd, rimangono a tutt’oggi purtroppo, e tristemente, quelle renziane, goffamente riformulate dal piddino pariolino Carlo Calenda, non a caso più credibile di tre mesi fa nonostante l’inconsistenza del bacino elettorale a cui la sua proposta sembra rivolgersi.

Pilotato al governo, la prima volta nel ’96, dal segretario con le scarpe da mille euro e con gli amici pugliesi ricchissimi della ex Banca del Salento – Massimo D’Alema – il Pd sembra non riuscire ancora a risvegliarsi da quel brutto incantesimo.

La forza politica incaricata, dal suo stesso dna e del suo destino storico, a rappresentare prevalentemente il ceto degli stipendiati piuttosto che quello delle partite Iva, il gruppo sociale dei sottoccupati piuttosto che quello degli imprenditori e dei professionisti, ha tradito se stessa e si è data alle ragioni del capitalismo liberista senza se e senza ma. Lasciando appunto – elemosine da 80 euro a parte – il monopolio della lotta alla povertà e della battaglia per i diritti degli ultimi alla Chiesa e ai Cinquestelle.

Il sogno – forse utopistico, forse semplicemente civile – è che risorga in Italia una forza politica capace, ma su basi nuove, di coniugare i valori della sinistra storica, che sono poi quelli dell’uguaglianza nei diritti e nelle opportunità e della prevalenza dell’interesse collettivo su quello esclusivo degli individui, con le esigenze del governo di un Paese democratico inserito in un mondo ed in un mercato globali. Ma che non sia più ombreggiata dal mantello da Nosferatu che sventola sulle spalle di quel che resta del Pd dalemian-renziano.

Una forza politica davvero nuova, insomma, che si avvalga della linfa sana, pur sempre fluente nelle vene dei Cinquestelle, canalizzandola verso una capacità di governo che si nutra di competenze, di maturità e di concretezza, dunque ben distante dai massimalismi cialtroni e dalle pretese di efficienza naif che hanno affossato finora il transito governativo dei pentastellati. Sarà capace, Nicola Zingaretti, di costruire una simile utopia? Sarà capace di valorizzare, del fenomeno “populista”, il prefisso che si richiama al popolo e alle sue necessità?

Oppure e ancora uno stimolante compagno di strada di questa nuova forza potrà essere la nuova Cgil di Maurizio Landini, al di là degli autolesionistici esordi protesi ad evocare la panacea-boomerang dell’imposta patrimoniale, anziché l’Armata Brancaleone dei post-grillini? Il dagherrotipo di Enrico Berlinguer, esile e sofisticato intellettuale di sinistra, eppure carismatico leader popolare, capace di arringare la folla davanti ai cancelli di Mirafiori indica quest’altra strada.

Di sicuro, gli ultimi segnali dal pianeta politico italiano dicono che la sinistra non è ancora morta, e il risorgere di una destra-senza-centro ne è la miglior prova. Finché ci sarà una destra manesca e discriminatoria, potrà esserci una forza di sinistra. Purché nuovamente in grado di connotarsi per affermazioni e programmi avvincenti, e non solo per distinguo sofisticati e debosciati.

Si tratta di trovare un nuovo e rinsavito dottor Frankenstein capace di rianimare la Creatura senza scatenarne gli istinti autolesionistici. Auguri a Zingaretti: sarà dura ma val la pena provare.

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