Guardando all’Italia come a una democrazia occidentale matura, ieri hanno battuto i loro colpi sia la premier in carica, Giorgia Meloni, sia la premier-ombra Elly Schlein. La prima ha calato un decreto legge che ha stilato una lista di 19 Paesi che Roma ritiene sicuri per l’approdo di migranti. Vi è naturalmente l’Albania: oggetto di tempesta politico-giudiziaria nel fine settimana, quando il Tribunale di Roma aveva “ordinato” al governo il rimpatrio di una dozzina di migranti, il giorno stesso dell’inaugurazione del nuovo centro d’accoglienza “esterno” all’Italia e alla Ue. Si è trattato di un atto essenzialmente politico, anche nell’alzare la responsabilità del dossier migratorio all’intero esecutivo e alla sua maggioranza. Nel merito Palazzo Chigi ha tenuto la posizione preminente del potere esecutivo su una questione complessa di politica interna ed estera. Una replica frontale al potere giudiziario che – almeno in termini oggettivi – aveva contrapposto la propria competenza prioritaria a tutelare i “diritti”: quelli dei migranti, sostenuti dalle Ong, sulla base di una sentenza della Corte di Giustizia Ue (soggetto diverso da Commissione e Parlamento) vecchia di appena due settimane.



Ora la parola è al Presidente della Repubblica, che dovrà controfirmare il decreto oppure non consentirne l’entrata in vigore motivando la sua decisione. Mattarella domenica aveva rivolto un invito – più personale che istituzionale –  ai poteri dello Stato perché ritrovino forme di “collaborazione”. La polemica fra maggioranza di governo e ordine giudiziario è però al calor bianco, soprattutto nei giorni in cui lo stesso vicepremier Matteo Salvini è sotto processo: il momento risolutivo di un confronto fra il leader della Lega, l’opposizione e i magistrati vecchio di almeno cinque anni sul fronte migratorio. Quando ieri sera la premier ha ribadito che “in Italia si può entrare solo legalmente” – e a decidere chi può entrare e restare è il governo con la fiducia del Parlamento – si è sentita l’eco delle polemiche del 2019 sullo sbarco paramilitare della Sea Watch 3 a Lampedusa: contrastato vanamente dall’allora titolare del Viminale e pienamente avallato invece dalla magistratura.



Nel pieno della “strategia della tensione” della sinistra politica e giudiziaria attorno al caso migranti-Albania, la segretaria del Pd Elly Schlein ieri ha accusato direttamente la premier di “ non sapere che l’Egitto non è un Paese sicuro dopo quanto accaduto con l’uccisione di Giulio Regeni”. È una presa di posizione che sembra meritare più di una riflessione, al di là di quella – scontata – sulla caccia spicciola ai voti di tutti coloro che considerano la “verità su Giulio Regeni” (ancora campeggiante su striscioni gialli ormai stinti) la priorità politica del Paese. O banalmente: un versetto quotidiano di una continua narrazione – più demagogica che ideologica – contro ogni “destra”, in questo momento quella al governo.



La tragica vicenda del ricercatore italiano distaccato da Cambridge all’American University del Cairo e trucidato nel gennaio 2016 – verosimilmente in un regolamento di conti interno alle forze di sicurezza egiziane – ha attraversato cinque governi prima di entrare nell’era Meloni. Tutti i presidenti del Consiglio si sono impegnati a far luce sul caso Regeni, su cui è in corso un processo presso il Tribunale di Roma. Ma nessuno si è mai spinto a marchiare l’Egitto come Paese “insicuro”. Non Matteo Renzi né Paolo Gentiloni, premier Pd; non Giuseppe Conte 1 (M5s-Lega) e Giuseppe Conte 2 (M5s-Pd), non infine il premier istituzionale Mario Draghi. Non lo hanno fatto perché – a maggior ragione dopo la crisi geopolitica a sfondo energetico –  Roma ha costruito con il Cairo una partrnership di prima importanza strategica, anche per l’Europa. La “premier ombra” del Pd sembra invece incurante di tutto e pare rilanciare verso Meloni l’accusa trita di affari sporchi con le “democrature”. Approccio politicamente legittimo, in attesa peraltro di un test presso gli elettori: soprattutto quelli del Pd, sempre supposti appartenenti a fasce a basso reddito e afflitti da due anni da bollette super-inflazionate.

Nessun capo del governo italiano ha mai lanciato fatwe contro l’Egitto, soprattutto perché se c’è uno Stato “sicuro” in termini geopolitici – cioè stabile e legato all’Occidente nel Mediterraneo – questo è quello attorno al Cairo. È divenuto brevemente instabile solo quando gli Usa di Barack Obama (di cui Schlein è stata campaigner) volevano esportare democrazia mediatica in Piazza Tahir, gemella di Piazza Maidan a Kiev. Si sono invece ritrovati a  consegnare il Paese – per poco – ai Fratelli Musulmani. Salvo poi renderlo di nuovo “sicuro” richiamando precipitosamente i militari di sempre, ovvero i discendenti di leader come Nasser e soprattutto Sadat. Un Egitto post-coloniale e laico con cui l’Italia dell’Eni ha stretto fin dalla nascita rapporti di geopolitica. Schlein se ne vergogna, vorrebbe bruciare quel ponte verso l’Africa? Da una premier-ombra sarebbe opportuna più chiarezza.

L’Egitto di Sadat, appena quattro anni dopo una guerra iniziata il 7 ottobre 1973, volò in Israele e concluse una pace che cambiò la storia: la prima pace fra un Paese arabo e il nuovo Stato ebraico, dopo quattro guerre. Se Gaza oggi – nonostante una nuova guerra sanguinosa fra Hamas e Israele – ha qualche chance di ricostruzione è anche perché quasi mezzo secolo dopo l’Arabia Saudita è pronta a replicare il passo dell’Egitto. È pronta a investire – anche con l’Egitto, anche con l’Europa – su un futuro per i palestinesi nei loro territori. Altrimenti questi ultimi (ri)diventeranno migranti anche loro: e l’Europa, che sta richiudendo ai richiedenti asilo perfino i confini interni all’Unione, farebbe di tutto perché un’ennesima ondata mediterranea venisse affrontata – ancora una volta – anzitutto dall’Italia. Questo sulla base di accordi firmati (subiti) a Dublino ormai 11 anni fa dal governo Pd di Enrico Letta: in cambio (ha detto la ministra degli Esteri firmataria Emma Bonino) di qualche spicciolo d’attenzione da Bruxelles sui conti italiani, stangati due anni prima dall’austerity.

È questo che vuole la premier-ombra del Pd? Sarebbe opportuno lo dicesse. Non sappiamo, nel frattempo, se il nuovo presidente Usa (Kamala Harris o Donald Trump, candidati diversamente rigidi sui flussi migratori dal Sudamerica) oppure lo stesso premier israeliano Benjamin Netayahu sarebbero felici di aver a che fare con Schlein come  premier italiana. Di certo la segretaria “dem” farebbe terra bruciata dei “grandi vecchi” fondatori del Pd: i premier (veri) Romano Prodi e Massimo D’Alema. Forse è il suo obiettivo è – anche – questo.

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