Sergio Mattarella si sarebbe infuriato perché la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è intrattenuta a Palazzo Chigi con il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, senza informare il Quirinale. A stretta lettera istituzionale, il Presidente della Repubblica non ha torto, avendo fra le sue prerogative costituzionali anche la guida dell’organo di autogoverno della magistratura, in funzione di garanzia dell’indipendenza dei poteri dello Stato. Da un punto di vista politico (di “costituzione materiale”) è però Meloni a sembrare giustificata – almeno in parte – in un gesto che risponde a un’azione reiterata della magistratura in diretta rotta di collisione con l’azione del governo sul fronte della gestione dei flussi migratori, quindi anche della sicurezza interna ed esterna.



Colpisce, a maggior ragione, che la magistratura intervenga nuovamente (con uno specifico atto parzialmente politico come il rinvio alla Corte di Giustizia Ue) su un decreto appena varato ad hoc dal governo e firmato dalla Presidenza della Repubblica. Chi è l’“eversore”? Chi vara legittimamente norme con forza di legge o chi dovrebbe applicarle e invece ne contesta la legittimità in modi impropri? Chi sta sviluppando contro chi una “strategia della tensione giudiziaria” (citazione da un importante quotidiano ieri mattina)?



Sul fronte aperto dalla magistratura sul caso Albania colpisce ancora una volta il timing di giudici che impiegano spesso molti anni per concludere indagini penali o cause civili riguardanti cittadini (contribuenti) “normali”, ma agiscono “in tempo reale” quando è in gioco il trattamento (non il respingimento) di un immigrato non regolare, spesso su esposto di una Ong. E quasi sempre (emblematico l’assalto al porto di Lampedusa nel 2019) i giudici colgono l’occasione per entrare a piedi uniti contro un governo di centrodestra: con il visibile effetto politico (se non con l’obiettivo iniziale) di screditarlo sia all’interno che all’estero.



Il caso Albania sembra coinvolgere – oltre a procure e tribunali ordinari – anche una magistratura amministrativa come la Corte dei Conti. Con riflessi tutt’altro che marginali, quando il conflitto fra poteri dello Stato si aggrava. La Corte dei Conti, si è letto nelle ultime ore, avrebbe aperto un dossier su esposti di Italia viva e M5s riguardanti gli oneri a carico dell’erario per l’operazione di esternalizzazione dei migranti. Gli stessi magistrati contabili si muovono “ad horas” contro il governo Meloni per spese correnti misurabili in decine o centinaia di milioni. Non si ricorda tanta solerzia quando il ministro dell’Interno Marco Minniti (governo Gentiloni) adottò una politica di freno dei barconi imperniata – secondo indiscrezioni mai smentite – anche sulla cooperazione finanziaria con regimi e milizie libiche. Ma soprattutto: non c’è memoria di una presa diretta della Corte dei Conti quando – a metà negli anni 90 – il governo Prodi (con Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi al Tesoro) vendette in sequenza accelerata i maggiori cespiti patrimoniali dello Stato: da Telecom Italia alle Autostrade, alle banche dell’Iri, a quote maggioritarie di Eni ed Enel. Decine di miliardi di euro: sempre al prezzo e ai compratori “giusti”? Quella delle Opv integrali in stile Britannia era davvero la formula migliore per tutelare l’interesse pubblico?

La Corte dei Conti ha impiegato più di 10 anni per esprimersi: con una relazione che, nel 2010, ha sollevato più di un dubbio sull’operato del governo di centrosinistra. Ma appare ancora un peccato veniale a confronto dell’attenzione istantanea riservata alla denuncia di M5s sul caso Albania. Quello guidato da Giuseppe Conte è il partito che quattro anni fa assieme al Pd  ha concepito e varato l’operazione superbonus, oggi già considerata fra i peggiori atti di malgoverno della storia della Repubblica. Malgoverno anzitutto finanziario, avendo innescato un ordigno da oltre 120 miliardi nei conti pubblici, potenzialmente letale per un Paese già malato grave sul fronte del debito pubblico. Malgoverno economico e civile, allorché il superbonus non ha raggiunto gli obiettivi dichiarati nella transizione energetica e ha originato frodi miliardarie, che il governo Draghi è riuscito a malapena ad arginare con un decreto di fine 2021. Ebbene: non si ricordano fari accesi in tempo reale da parte della Corte dei Conti e neppure clamore politico–mediatico sulle critiche espresse quando ormai il latte avvelenato del superbonus era stato tutto versato.

Forse andò così perché di fari sul superbonus – varato nei mesi dei poteri speciali del governo per la pandemia – non se ne accesero neppure dal Quirinale. A proposito: il governo non riesce ancora a nominare un primo giudice costituzionale di designazione parlamentare, espressione quindi della sovranità democratica. Uno dei cinque membri “giudiziari” della Consulta è invece direttamente designato da un collegio del quale fanno parte il presidente, i presidenti di sezione, i consiglieri, il procuratore generale e i viceprocuratori generali della Corte dei Conti. È questo collegio (espressione di un club chiuso di 477 magistrati contabili, poco diverso da quello degli oltre 9mila magistrati ordinari) a consegnare direttamente al Quirinale un nome su un biglietto: quello di un giudice auto–espresso da un corpo dello Stato sostanzialmente “separato”, con il gradimento – vincolante ed esclusivo – del Presidente della Repubblica in carica. Il quale – val sempre la pena di ricordarlo – ha il potere di nominare direttamente 5 membri su 15, mentre altri 5 (compreso quello della Corte dei Conti) sono espressi dai magistrati con il placet del Quirinale. Invece la maggioranza parlamentare in carica non può nominarne neppure uno senza il consenso di una parte dell’opposizione. Anzi del Pd: che da 18 anni presidia il Quirinale senza aver mai vinto un’elezione politica.

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