Lo scontro tra Serbia e Kosovo rischia di portare un nuovo focolaio di guerra in Europa. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è quella di Banjska, nel Nord del Kosovo, dove in uno scontro sono morti un poliziotto kosovaro e alcuni componenti di un gruppo estremista serbo. Un episodio giudicato come “terroristico” dalla comunità internazionale, ma che in Serbia ha fatto indire una giornata di lutto per ricordare i connazionali che hanno perso la vita. È solo l’ultima di una serie di frizioni tra le parti, che da mesi stanno scaldando sempre di più gli animi e che rinfocolano le rivendicazioni di Belgrado su un territorio di cui non accetta l’autonomia.
Uno scontro che storicamente, spiega Vincenzo Giallongo, colonnello dei carabinieri in congedo che ha partecipato a diverse missioni estere in Albania, Iraq, Kuwait e Kosovo, si radica nella guerra della fine degli anni 90, che vide l’intervento della Nato e si concluse con l’accordo del giugno 1999, sancendo la nascita di un protettorato internazionale in Kosovo. Un conflitto che, al di là delle motivazioni sbandierate, nascondeva un interesse specifico degli Usa. Intanto l’Alleanza atlantica ha rafforzato la sua presenza nell’area.
Serbia e Kosovo non riescono a trovare pace, come si spiega l’aggravamento della situazione e da dove nasce?
Sono stato in Kosovo. Lì gli americani hanno commesso il grande errore di immischiarsi in problemi in cui non avrebbero dovuto mettere il naso. Lo hanno fatto esclusivamente per potersi costruire a Pristina una base militare enorme, che potesse controllare i Balcani, ma ancora di più il vicino Oriente. Cercando di sostituirsi agli interessi della Russia in quella zona. Sono loro che hanno dato il la, con la guerra alla Serbia, a conflitti come quello tra russi e ucraini.
I rapporti tra Pristina e Belgrado non si sono mai normalizzati?
Tra Serbia e Kosovo il fuoco ha sempre covato sotto le ceneri: i serbi mal digeriscono che gli americani siano arrivati e abbiano aiutato il popolo kosovaro a prendersi parte del territorio che era a tutti gli effetti territorio serbo. E che gli stessi albanesi non hanno mai rivendicato. Con la caduta del muro di Berlino gli Stati Uniti non avevano più interesse a mantenere le basi in Italia, come è stato fatto a Comiso. Si voleva spostare l’asse verso Est. Per questo è stata realizzata questa base gigantesca.
Perché le ceneri di questo scontro ora stanno alimentando un nuovo fuoco?
Visto quello che sta succedendo tra Russia e Ucraina, i serbi, che non sono in Europa e tornano a schiacciare l’occhiolino a Mosca, pensano che sia il momento giusto per rivendicare certi territori.
I serbi ritengono che se i russi possono rivendicare territori in Ucraina, anche loro possono fare lo stesso nei confronti del Kosovo?
Certo, tanto più che in questi territori vivono molti serbi.
La sparatoria che c’è stata negli ultimi giorni è solo l’ultimo di una serie di fatti che hanno riacceso gli animi. Come se ne esce?
Bisogna sedersi a tavolino e costringere i kosovari a considerare di più i serbi, che lì sono trattati malissimo. L’ho visto con i miei occhi. Quando ero in Kosovo, nel 2005, dovevamo fare la scorta a un pope, un sacerdote ortodosso, solo perché era serbo. La mentalità è ancora quella. I serbi hanno le loro colpe e ci sono conti da risolvere tra le parti che affondano le loro radici nel passato, anche se quello che ha portato a questa situazione è stata l’ingerenza americana, senza la quale il Kosovo oggi non esisterebbe e la Serbia forse potrebbe essere già entrata in Europa.
La guerra sbandierata dalla Nato come umanitaria aveva, invece, come vero scopo, quello di creare una base Usa nell’area?
Assolutamente sì. Non solo. Quando gli americani hanno terminato la base hanno detto che, nonostante tutto, si trattava di problemi europei e se ne sono andati.
La Serbia vive questa contraddizione di sentirsi legatissima alla Russia e allo stesso tempo di avere aperta la possibilità di adesione all’Ue. Come la risolverà?
Dipende da come verrà risolta la questione del Kosovo. Sono convinto che si arriverà a una trattativa. Non può scoppiare un’ulteriore guerra in Europa, a due passi dall’Adriatico. Non se lo può permettere nessuno. Gli Usa avrebbero dovuto cercare una soluzione diplomatica anche negli anni 90. Invece hanno approfittato della situazione, sfruttando la possibilità di costruire la loro base militare. Una volta fatto quello si sono ritirati da tutto il resto, ci hanno dato il comando delle truppe Onu in Kosovo e ci hanno lasciato con il cerino in mano.
Chi può fare da mediatore per un nuovo accordo?
Gli attori di questa mediazione, secondo me, dovrebbero essere gli europei, gli americani sono troppo invisi ai serbi. Non credo però che la Ue abbia la forza di prendere l’iniziativa. Così, però, rischiamo di avere in Europa un Paese di un certo peso che si schiera con la Russia. Già in parte la Serbia è schierata in questo senso, ma solo perché l’abbiamo sempre trattata come un paria. I serbi si sentono defraudati e allontanati da cristiani come loro. Un ufficiale serbo durante un incontro mi disse: “Vi siete schierati con gli islamici contro vostri fratelli di fede”. La gente comune pensa questo.
Tutto quello che è stato imputato alla Serbia negli anni dell’intervento Nato non era vero?
È tutto vero, ma gli errori, anche grossi, li hanno fatti tutti contro tutti. Non c’è nessuno che si salva.
Ma come devono essere incanalate le trattative per poter raggiungere un risultato?
Occorre mantenere, se possibile, la distinzione tra Serbia e Kosovo. Sono per l’autodeterminazione dei popoli, ma certe scelte vanno fatte con intelligenza: se decidiamo che i kosovari possono avere una regione autonoma come possiamo dire no alla Catalogna, ai Paesi Baschi o ad altre regioni che vogliono l’indipendenza? Le trattative comunque dovrebbero essere aperte a tutto, cercando di trovare un punto di equilibrio. Può darsi che, di fronte a una Serbia che considera il Kosovo territorio suo, una grande autonomia possa essere sufficiente per i kosovari. A oltre vent’anni dalla guerra può essere che riescano a parlarsi e ragionare.
(Paolo Rossetti)
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