Il mondo agricolo è parcellizzato, con aziende troppo piccole. E in certi termini lo è anche il mondo della distribuzione. La ragione della carenza di remunerazione dei produttori agricoli e allevatori, che lamentano di essere pagati troppo poco per i costi che devono affrontare, va ricercata principalmente nelle dimensioni inadeguate del settore. La colpa, insomma, spiega Giorgio Santambrogio, amministratore delegato del Gruppo VéGé, non può essere addossata alla grande distribuzione, ora denominata moderna, anche perché una cospicua parte del valore legato ai prodotti va ad altri attori come lo Stato e l’industria di trasformazione. Quello che occorre fare è armonizzare la filiera, favorendo la formazione di cooperative e consorzi per quanto riguarda le aziende agricole e andando verso la concentrazione per quanto invece concerne le insegne della distribuzione.
Come si spiegano i prezzi bassi riconosciuti ai produttori agricoli? È davvero colpa soprattutto della grande distribuzione?
È sostanzialmente un problema di costi, e non solo di ricavi. Il settore dell’agricoltura insieme a quello della distribuzione è uno dei più polverizzati in Italia. Se guardiamo alla distribuzione i primi cinque gruppi rappresentano il 57% del mercato, quando in altri Paesi europei pesano fino al 70-80%, anche il 90%. Quello che è ancora più polverizzato è il sistema agricolo: da anni si cerca di organizzarlo a livello aziendale in cooperative, consorzi. Si tratta di una polverizzazione che porta a delle inefficienze di filiera. E peraltro molti attori del comparto agricolo non andrebbero a break even se non avessero i contributi europei piuttosto che gli sgravi fiscali italiani. Tutto nasce quindi da un problema di costi derivanti dalla struttura, cui se ne aggiunge un altro che negli ultimi tempi hanno avuto tutti: l’incremento dei costi energetici.
Sono questi, quindi, i problemi da affrontare. L’Europa c’entra fino a un certo punto?
Ciò da cui è nata la protesta degli agricoltori a livello europeo è stata inizialmente la norma che obbliga a mettere a riposo i terreni, come impone la direttiva UE, riducendo la possibilità di sfruttamento e quindi la capacità produttiva di aziende che sono piccole e in questo modo hanno ancora meno da vendere. Poi c’è la questione dei fitofarmaci, per la cui riduzione in Italia siamo all’avanguardia: accettiamo prodotti di altri Paesi, anche gli USA, dove invece vengono usati ad abundantiam.
Questo per quanto riguarda il problema dei costi, ma c’è anche ovviamente un tema ricavi: quello che denunciano gli agricoltori è che i loro sono molto inferiori a quelli di chi vende al consumatore. Come mai c’è questo gap?
Uno degli argomenti a cui si ricorre spesso è quello della lievitazione dei prezzi nel passaggio dal produttore agricolo al venditore finale: il prodotto pagato ad esempio 50 centesimi che sugli scaffali del supermercato viene esposto a 3 euro, 6 volte tanto. La conclusione, demagogica e scorretta, è che la colpa è della moderna distribuzione. Ma sia per quanto riguarda il prodotto caseario, sia per quanto riguarda l’ortofrutta ci sono tanti passaggi di cui tenere conto. Non solo: pensiamo allo scarto, notevole, sempre di pertinenza della DO, oppure il costo della perfezione della filiera in termini di controlli della salubrità dei prodotti. In realtà la filiera, proprio perché non è modernizzata in termini di grandezza dimensionale, ha ancora bisogno di determinati intermediari. Va tenuta presente anche l’industria di trasformazione, che prende buona parte dei prodotti che arrivano dal settore agricolo.
Dunque gli agricoltori vengono pagati poco anche dall’industria di trasformazione.
In VéGé, tra l’altro, stiamo portando avanti un progetto, nel settore dell’ortofrutta, che si chiama “Brutti e buoni”, che consiste nel proporre ai consumatori finali anche quei prodotti che hanno forme particolari, buoni come gli altri ma che solitamente non vengono accettati per una sorta di cultura dell’estetica, perché sformati e sgradevoli alla vista. Questi prodotti, usati ad esempio per fare marmellate o composte, vengono svenduti dall’agricoltura alle aziende di trasformazione. Però di questa carenza di marginalità non si parla.
Allora la grande distribuzione non ha responsabilità?
Il luogo comune è che la zucchina viene pagata poco al produttore, mentre la grande distribuzione la vende a un prezzo molto superiore. Al di là del fatto che attraverso le promozioni il prodotto viene venduto al cliente a un prezzo adeguato, spesso ci troviamo di fronte a un controsenso: se vendiamo il prodotto a prezzo troppo basso ci accusano di svilire la categoria e la filiera, se gli diamo valore vendendolo a un prezzo normale, siamo sempre quelli cattivi che pagano poco coloro da cui acquistano il prodotto. Non nego che possano esserci delle manchevolezze da parte dell’intera filiera e anche di alcuni attori della distribuzione: i punti decisionali, quelli con cui si fanno le negoziazioni, sono oltre 600, può esserci anche qualcuno che sfrutta il rapporto con l’agricoltore. Però in generale bisogna sfatare il luogo comune che l’agricoltore va con i suoi prodotti dalla moderna distribuzione e viene stroncato. Anzi la distribuzione vuole aiutare il comparto agricolo che dà prodotti di qualità: per noi è un settore delicato e strategico. Il cliente entra in punto di vendita e vede l’ortofrutta: è la vetrina e noi la vetrina la vogliamo trattare bene.
Ma ci sono anche altri elementi che incidono sulla formazione del prezzo con cui paghiamo i prodotti al supermercato?
Cito una ricerca eseguita da Ambrosetti: lo Stato si tiene un 20% del valore aggiunto che passa nella filiera e le banche il 4%. Ma chi ha più parte in questa filiera è l’industria di trasformazione che si trattiene oltre il 40%. La questione comunque non è di stabilire chi è cattivo e chi è buono: bisogna modernizzare il comparto per ridurre le inefficienze nel passaggio da un attore all’altro della filiera. C’è un interventismo molto elevato da parte dello Stato o anche da parte dell’Europa. Il decreto-legge 198 del 2021, che legifera in termini di pagamenti sugli obblighi che la distribuzione deve avere nei confronti dell’industria di trasformazione e che quest’ultima deve avere con le cooperative fino ad arrivare all’agricoltore, fa sì che questi prodotti debbano essere necessariamente pagati a 30 giorni fine periodo data consegna (o direttamente data consegna, se one-shot). Le problematiche relative alle carenze dei pagamenti derivano anche da qui. I problemi ci sono, non ci nascondiamo. Ma la filiera agroalimentare pesa tanto nel sistema Italia, le criticità vanno risolte. Reintrodurre la sospensione del pagamento dell’IRPEF sui terreni è un palliativo.
Il primo cambiamento da attuare, comunque, resta quello del dimensionamento delle aziende agricole e della distribuzione?
In tutti i settori del mondo c’è un processo di concentrazione: ci deve essere anche all’interno della distribuzione. Il concetto “piccolo è bello” fa parte degli anni 70 e 80, adesso non va più. Ma per migliorare i prezzi riconosciuti agli agricoltori bisogna anche intervenire su altri attori della filiera come lo Stato e l’industria di trasformazione. Faccio un intervento a gamba tesa: aumenta di 10 centesimi la zucchina e crolla il mondo, se aumentano del doppio i pedaggi autostradali, la telefonia, le assicurazioni nessuno si lamenta. Su questo c’è molta demagogia.
(Paolo Rossetti)
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