La giustizia italiana continua a navigare in acque agitate, con vento in rinforzo che soffia da più parti. L’imputazione coatta di Delmastro e l’indagine sulla Santanchè hanno fatto da detonatore in uno scenario in cui si erano già registrate le dimissioni dei quattro saggi dal comitato sull’autonomia differenziata, lo scontro con la Corte dei Conti sul “controllo concomitante” sui progetti del Pnrr, i malumori delle toghe per i primi accenni di riforma della giustizia e infine l’allarme che l’Ue ha fatto scattare sulla giustizia italiana. Insomma, ci risiamo. Dopo che la premier aveva affermato a gran voce che avrebbe chiuso la lunga stagione dello scontro con la magistratura, è accaduto ciò proprio non voleva che succedesse.
Proprio nei giorni in cui si è data lettura del testamento di Berlusconi si è compiuta la nemesi. Quell’infinito e sfinente corpo a corpo tra poteri dello Stato che ha caratterizzato la lunga stagione dei governi berlusconiani si è nuovamente palesato. Le avvisaglie c’erano tutte, ma nessuno poteva immaginare che da palazzo Chigi potesse partire una nota che rappresenta un durissimo attacco contro i giudici: “È lecito domandarsi – si legge nella nota che porta la firma di “fonti di Palazzo Chigi” – se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee”; netto, esplicito, senza possibilità di fraintendimenti. Lo scontro è pertanto ricominciato più forte che prima.
Tutto è successo in meno di 48 ore: prima il caso che investe la ministra del Turismo, poi quello del sottosegretario della Giustizia. Quest’ultimo, indagato per aver denunciato pubblicamente atti riferiti alla vicenda della carcerazione dell’anarchico Cospito che erano coperti da segreto, ha “subìto” la richiesta di imputazione coatta da parte del gip a fronte della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, così da spingere la nota governativa, peraltro anonima, a formulare una vibrante protesta: “In un processo di parti non è consueto che la parte pubblica chieda l’archiviazione e il giudice dell’udienza preliminare imponga che si avvii il giudizio”.
In realtà, quanto disposto dal gip rientra fra le sue prerogative, che sono, se non spessissimo, comunque frequentemente applicate. Il problema è che si coglie nelle parole di palazzo Chigi la chiara volontà di archiviare (sia scusato il gioco di parole) la stagione del dialogo e della diplomazia. Se per un verso già si è annunciato un nuovo intervento di Nordio, probabilmente molto più drastico dei precedenti (come del resto era stato più volte ventilato, venendo poi stoppato dalla premier), per altro verso non si può non ricordare che il potere del gip di disporre al pm l’imputazione coatta nasce dalla previsione costituzionale dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale; esso rappresenta quindi un ineludibile punto di controllo rispetto ai possibili abusi del pm che a quell’obbligo di esercitare l’azione penale si sottragga per le più disparate ragioni. Ma qui, ne siamo consapevoli, non è questioni di tecnicismi: il punto è che la premier, che ha sin qui cercato una tregua con il potere togato, ha deciso di cambiare linea, comunicandolo senza utilizzare perifrasi.
Non dissimilmente, per quanto attiene la vicenda della ministra del Turismo, nella citata nota si legge che “In un procedimento in cui gli atti di indagine sono secretati è fuori legge che si apprenda di essere indagati dai giornali, curiosamente nel giorno in cui si è chiamati a riferire in Parlamento, dopo aver chiesto informazioni all’autorità giudiziaria”. Anche sotto questo aspetto, spiace dirlo, ma la nota non coglie nel segno. Come ha ben spiegato Ferrarella sul Corriere, la vicenda della Santanché si inquadra perfettamente nelle dinamiche temporali che riguardano ordinariamente la gestione delle vicende giudiziarie. Per quanto possa apparire risibile al cittadino comune, è nella norma che un avviso di proroga delle indagini datato 30 marzo, ovvero oltre 90 giorni fa, e la cui notifica sia affidata all’Unep (Ufficio notificazioni, esecuzioni e protesti, ndr), stia ancora vagando fra uffici postali o quelli degli ufficiali giudiziari a ciò preposti: signori, da noi funziona esattamente così e non da ieri. In questa vicenda non rilevano spifferi provenienti dagli uffici giudiziari né si scorge una giustizia a orologeria.
Come di rito, dopo le note di palazzo Chigi e quelle del ministero della Giustizia, non poteva certo mancare la reazione dell’Anm. Davanti al suo comitato direttivo centrale, ieri Giuseppe Santalucia, pur usando toni pacati, ha pronunciato parole durissime: “Non meglio precisate fonti governative ci accusano di essere schierati politicamente. È un’accusa gravissima, che colpisce al cuore la magistratura, perché un magistrato fazioso, che si schiera politicamente, non è un magistrato. È una critica pesantissima che respingiamo”.
In questo rinnovato clima di scontro, tuttavia, il cittadino comune si chiede che sorti subirà il percorso delle riforme in tema di giustizia e, ahinoi, le rassicurazioni non sembrano poter essere formulate. Insomma, tecnicismi a parte – che pur talvolta sono necessari a comprendere le cose – ciò che appare più corretto evidenziare è che stiamo assistendo alla reiterazione dell’ennesimo cortocircuito politico-giudiziario che non fa bene a nessuno, né alla magistratura né al Governo e soprattutto non fa bene ai cittadini.
Come non bastasse, qualche giorno addietro, dalla lettura del report annuale della Commissione europea sullo stato del diritto si è appreso che l’Unione sta “monitorando” la riforma Nordio che cancella l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, mettendo sotto osservazione i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni e il progetto di separare le carriere di giudici e pm. Il report, firmato dal commissario alla giustizia Reynders, si riferisce dunque esplicitamente alle iniziative assunte dal governo nelle scorse settimane, sottolineando che i progressi compiuti sono determinati soprattutto dalla riforma Cartabia sulla digitalizzazione, sul numero dei magistrati e sulla lunghezza dei processi.
Chi scrive continua a pensare che una riforma strutturale, espressione di una visione complessiva del nostro sistema giudiziario, sia necessaria così come si palesa indispensabile riportare in equilibrio il rapporto patologico esistente fra politica e magistratura. Prima che scoppiasse la tempesta perfetta, lo stato d’agitazione delle toghe per l’azione del governo in tema di giustizia era già alto, mentre all’orizzonte si profilavano i nuovi provvedimenti annunciati dal ministro: una stretta alle intercettazioni – partendo dalla già annunciata limitazione del budget a disposizione delle procure –, il sorteggio per i componenti togati del Csm, che farebbe perdere terreno alle correnti, e la separazione delle carriere. Oggi l’aria che si respira è ancora più tesa e, come noto, un clima di scontro certo non favorisce le riforme: alzare il livello delle polemiche serve solo a rallentare o impedire che le stesse vadano in porto.
Palazzo Chigi prima e il ministero poi, con le rispettive note stampa, forse volevano dimostrare che la politica non ha paura. Forse siamo in presenza di schermaglie. Forse, e sarebbe lo scenario peggiore, c’è chi lavora per impedire che le riforme si facciano sul serio.
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