Per l’ennesima volta sale lo scontro tra politica e magistrati. A prescindere dai fatti di questi giorni, credo sia indubbio sottolineare come nel suo complesso la magistratura sia comunque sempre molto restia ad assumersi le proprie responsabilità.

Così, ogni volta che la politica tenta di toccare o ridurre i “diritti acquisiti” dei giudici, la reazione della categoria è ferma, quasi di casta.



Pensiamo a tutti i referendum che nei decenni si sono susseguiti sulla responsabilità dei magistrati e non sono mai stati di fatto applicati, a quanti (pochissimi) giudici siano stati portati a giudizio per sentenze dimostratesi apertamente insostenibili, o ai casi infiniti in cui – a livello europeo – la giustizia italiana sia stata condannata per discriminazioni o ritardi: i responsabili dei fatti non pagano mai.



La stessa magistratura che negli anni ha sempre rivendicato la propria (doverosa) autonomia non è stata mai capace di strutturare organismi di autogoverno credibili e ben distinti dalle interferenze politiche, tanto che – a parte gli scandali conclamati, ma che poi alla fine sono stati tutti più o meno insabbiati – le stesse ”liste” per l’elezione del Csm hanno sempre fatto riferimento a ben chiare e riconoscibili aree politiche da cui, implicitamente, si attendono e si offrono adeguate e reciproche protezioni o almeno cenni di reciproci vantaggi.

È stato lo stesso sistema di autogoverno interno e le sue concrete possibilità di interferire nelle carriere che ha spinto quindi i magistrati a schierarsi, perché l’appartenenza a questo o quel gruppo era (ed è) l’indispensabile passaporto per passare di grado in una aperta lottizzazione generale, soprattutto per raggiungere quelle posizioni di potere che a loro volta possono condizionare la politica.



A parte i (pochi) casi eclatanti di corruzione che ogni tanto emergono dalle cronache (e di solito per pesci piccoli) è il sistema stesso – sia politico che giudiziario – che è man mano scivolato verso queste reciproche sudditanze a difesa di uno status quo che molto spesso cristallizza reciproci vantaggi.

Se la nostra Costituzione (sempre richiamata quando fa comodo, subito dimenticata quando nei fatti è violata) ha diviso in tre ambiti l’esercizio del potere, non c’è dubbio che una repubblica parlamentare come la nostra proprio nel parlamento ha il suo anello sempre più debole, in antitesi con quelli che erano i desiderata dei padri costituenti e nonostante che le Camere siano – o dovrebbero essere, visti i recenti sistemi elettorali – l’unica espressione diretta del volere dei cittadini.

Oggi il Parlamento è invece condizionato dall’esecutivo, diventando di fatto un ratificatore di decreti legge in scadenza, ma anche la magistratura, rivendicando la propria autonomia, ha saputo coltivare ed accrescere un proprio potere di veto che schiaccia il parlamento e condiziona i governi, anche se probabilmente la gran parte dei cittadini sarebbe assolutamente d’accordo con riforme capaci di snellire il sistema e rendere chiare le responsabilità dei giudici.

Eppure ogni provvedimento è rallentato, non si passa, non si cambia, non si migliora, dato che raramente i magistrati ammettono i loro limiti e si sottopongono a valutazioni oggettive sul lavoro svolto. Si cresce solo per anzianità, ma anche per appartenenza: il “metodo Palamara” è stato la punta dell’iceberg ma si fa finta di non sapere che era ed è la realtà consolidata.

Bisogna prendere atto come in questo quadro complessivo la sinistra sia stata capace negli anni non solo di inserire molti suoi rappresentanti tra le toghe, ma soprattutto di promuovere e lusingare quelle correnti della magistratura più ad essa vicine, con un corto-circuito di emarginazione verso chi non è parte del sistema, ma anche della crescita di una sorta di reciproca contro-assicurazione per ogni evenienza.

Una realtà che emerge evidente dalle cronache ed ha aspetti regolarmente inquietanti come per il diffondersi o meno delle notizie, di “veline” o di testi di intercettazioni capaci di distruggere i protagonisti prima di qualsiasi processo. È scandalosa questa annosa questione delle fughe di notizie che dagli uffici giudiziari vengono fatte filtrare alla stampa, spesso prima ancora che l’imputato ne sia venuto a conoscenza.

Su queste questioni, però, non si prende mai una posizione chiara con inchieste interne precise ed individuando e pubblicamente condannando i responsabili di una cancelleria o i magistrati che parlano troppo (e non solo) con i giornalisti. Non mi risultano interventi drastici del Csm o dei responsabili degli uffici con chiamate a responsabilità dirette per stroncare il fenomeno: c’è sempre una auto-copertura, una nebbia che i cittadini avvertono come insopportabile, ma le cose non cambiano mai.

Una magistratura che avesse il coraggio di guardarsi allo specchio con la forza di intervenire criticamente anche al proprio interno sarebbe estremamente più credibile, lucida e potenzialmente imparziale; invece in passato troppe volte le accuse si sono ritorte proprio su quei magistrati, avvocati, imputati che avevano osato criticare il sistema o denunciare pressioni indebite nelle procure.

“Colpirne uno per educarne cento”: passano gli anni, ma lo slogan sessantottino sembra essere ancora di moda.

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