Ha ragione il ministro della giustizia Nordio a ritenere necessario un intervento di riforma sul concorso esterno. Del resto, chi legge i suoi interventi da anni sa che rappresenta una delle sue convinzioni più datate. A ben vedere, e per dirla tutta, non si tratterebbe neanche di una vera e propria riforma, ma piuttosto di una naturale, e secondo molti indispensabile, disciplina che nel nostro ordinamento manca.
Com’è noto, infatti, il concorso esterno in associazione mafiosa è una figura di costruzione giurisprudenziale che nasce dalla combinazione giuridica dell’art. 416 bis, che sanziona l’associazione di stampo mafioso, e dell’art. 110 del codice penale che prevede il concorso di persone nel reato. È nato per l’esigenza di sanzionare una serie di condotte atipiche, non rientranti nel perimetro sanzionatorio dell’art 416 bis, di ausilio alle mafie, poste in essere per lo più da imprenditori e politici. Condotte sicuramente dotate di grande disvalore penale, ma che difficilmente sarebbero rientrate nell’ipotesi del partecipe all’associazione. Si pensi all’imprenditore colluso che però non ha alcuna intenzione di entrare nell’organizzazione mafiosa, ma solo di trarre dall’abbraccio mortale significativi vantaggi economici.
L’Europa ci chiede da sempre di intervenire sul concorso esterno e la dottrina prevalente critica pesantemente la figura perché fortemente lesiva del principio di legalità e molto sospetta sul fronte della materialità della condotta. In sostanza, mentre la nostra Costituzione impone al legislatore di prevedere espressamente tutte le ipotesi di reato, il nostro Parlamento ha sempre preso tempo e fino a oggi non ha mai deciso di intervenire.
In realtà, il problema è ancora più serio, perché credo ormai da tempo che anche il reato di associazione mafiosa, introdotto dal Parlamento in soli 15 giorni nel settembre del 1982, sull’onda emotiva dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sia diventato inadeguato rispetto all’evoluzione delle mafie e non soddisfi più nessuno. Né chi privilegia le esigenze sanzionatorie delle nuove espressioni di mafiosità sempre più insidiose (si pensi tra gli ultimi al famoso caso di Mafia Capitale), né chi sostiene le prerogative garantiste e che a ragione richiede una fattispecie chiara e possibilmente definitiva di reato, senza dover inseguire le evoluzioni giurisprudenziali che all’occorrenza dilatano o restringono il campo di azione del concorrente esterno.
La questione è maledettamente seria e complicata. Metterci mano è ormai quasi un obbligo ineludibile. Come e a quali menti affidare il difficilissimo compito rappresenta il vero enorme nodo gordiano. È questione difficile come il compito di delineare il concetto di criminalità mafiosa ai fini dell’applicazione di tutte le regole speciali previste contro le mafie, a partire dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, recentemente messo in seria crisi dalla Corte di Cassazione.
Non mi persuade la modalità dell’intervento d’urgenza che purtroppo continua a caratterizzare la materia antimafia. Non sono questioni da risolvere con decreti legge, ma occorrerebbero profonde e competenti strategie di eradicamento delle mafie che il nostro Paese non ha quasi mai visto. E allora è normale che non rientri (ancora) nell’agenda di governo. Infatti, solo all’esito di riflessioni tecniche avvedute si potrà pensare di intervenire sulla questione serissima del concorso esterno in associazione mafiosa. Fino a quel momento, nella speranza che prima o poi arrivi, saranno solo chiacchiere e polemiche senza costrutto.
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