Il prof. Attilio Scienza è ordinario dell’Università degli Studi di Milano e grande esperto di storia del vino e dei vitigni, e si è sempre occupato del miglioramento genetico delle varietà, soprattutto ora che l’intero settore è alle prese con il cambiamento climatico. È molto conosciuto da tutti i produttori italiani e la sua fama lo ha condotto ovunque vi fossero vigne e wine-maker di successo. Il suo ultimo lavoro, La Stirpe del Vino (Sperling&Kupfer 2018) si occupa proprio della storia del vino, dove nasce, come e perché si diffonde, perché assume questo ruolo nella nostra vita, fino a diventare un pezzo della stessa storia dell’umanità. Grazie a tecniche sempre più sofisticate ha condotto numerose ricerche in questo campo. L’ultima, forse la più importante, l’ha fatta sulla vigna di Leonardo, a 500 anni dalla sua morte in terra di Francia. Una ricerca lunga e difficile, che lo ha portato a concludere che Leonardo bevesse volentieri la Malvasia di Candia, da lui stesso prodotta. Ma la prova definitiva, neanche a dirlo, è in un piccolo grappolo di uva che appare in una cesta tra le mani di Matteo nel famoso affresco dell’“Ultima cena”.



Professore, quindi ha condotto una vera e propria indagine per scoprire che vino bevesse Leonardo? A quanto pare un vino prodotto direttamente dalla sua vigna nel cuore di Milano?

Pochi lo sanno, e chi lo sa solitamente ci fa poco caso, ma Milano è la città in cui Leonardo da Vinci ha vissuto, seppur in maniera discontinua, per quasi dieci anni. Molte sono le testimonianze della sua permanenza nella città meneghina e molte le opere per cui i milanesi gli sono infinitamente grati. Spesso poco pubblicizzate ma non per questo meno affascinanti. Basti pensare allo splendido soffitto affrescato della Sala delle Asse nel Castello Sforzesco, ma ve ne sono molte altre addirittura completamente sconosciute.



Ad esempio, professore?

Un fazzoletto di terra che Ludovico il Moro aveva donato all’artista nel 1499. Si tratta un terreno coltivato a vigna nella zona di Porta Vercellina proprio davanti al convento di Santa Maria delle Grazie, dove Leonardo aveva da poco terminato di affrescare una parete del refettorio. Curioso è soprattutto il fatto che questa vigna fosse così cara a Leonardo, non solo da citarla come unico bene immobile nel suo testamento lasciandola in eredità a Salaj e Battista de Villanis, due dei suoi allievi e collaboratori più fedeli e affezionati, ma da descriverla anche nelle carte del Codice Atlantico (foglio 426r) dove ne viene fatta una rappresentazione minuziosa grazie alla quale siamo in grado di conoscere la sua reale estensione, di circa un ettaro.



Della vigna di Leonardo si è fatto un gran parlare in questi ultimi anni, ma nessuno si era posto il problema di localizzarla con precisione e di risalire alla natura del vitigno impiantato. Cosa può dirci?

Nella Milano di oggi e nel luogo che viene indicato come sede della vigna, non rimane, almeno in apparenza, praticamente nulla di quello che era l’ettaro donato da Ludovico Sforza a Leonardo da Vinci. Ma la vigna, o almeno una parte di essa, in verità sopravvive quasi intatta sino ai primi decenni del secolo scorso. Vuoi perché, in parte – quella ereditata da de Villanis – viene venduta al monastero di San Gerolamo che la gestisce traendone risorse anche nei secoli successivi, vuoi perché la speculazione e il boom urbanistico non hanno ancora preso possesso della città. Sta di fatto che fino al 1920 la vigna è ancora parte importante ed integrante del quartiere.

Vada avanti.

In realtà un angolino, davvero un fazzoletto di qualche metro quadro, che sopravvive anche all’esplosione edilizia degli anni venti, rimane protetta grazie alla sensibilità di Piero Portaluppi all’interno del giardino della casa degli Atellani, una delle dimore storiche di Corso Magenta. Stiamo parlando proprio della casa che ospitò Leonardo nel suo soggiorno milanese, oltre che essere luogo degli incontri tra il Moro e Cecilia Gallerani. Qui la vigna rimane vitale nei secoli grazie alla propagazione vegetativa – per propaggine – che ne mantiene inalterato il genotipo, sino al bombardamento alleato dell’agosto 1943, quando un incendio sembra distruggerla completamente.

A quanto pare le cose non sono andate proprio così: qualcosa alla fine si è salvato.

Sì. Se infatti la parte epigea (fusto e foglie) vengono completamente cancellati dal fuoco, la componente ipogea, le sue radici, rimangono protette dal terreno, anche per l’apporto di uno strato di detriti di circa un metro che le isola e le protegge ulteriormente. I lavori di ricostruzione della città, però, e la conseguente risistemazione e rimodulazione degli orizzonti pedologici, hanno impedito alle gemme, che si erano salvate, di germogliare e piano piano la vita si è spenta anche nelle parti della pianta che erano rimaste interrate. Ma le cellule, pur non essendo più capaci di proliferare e differenziarsi in una nuova pianta, sono comunque state custodi attente, proteggendo il loro più intimo segreto: il Dna.

E così è nata l’idea di avviare un’indagine in grado di risalire dal Dna alla natura del vitigno, alla sua origine, al vino che se ne traeva e quindi, in fondo, scoprire quale vino piacesse al grande genio rinascimentale.

Esatto, proprio così. La consapevolezza che la sequenza di nucleotidi, che costituisce l’essenza di un individuo, è l’ultima ad arrendersi al disfacimento e alla scomparsa, ha fatto ritenere fattibile l’impresa di identificare quale fosse l’identità del vitigno coltivato nell’orto di Leonardo. Del resto la vigna è sopravvissuta integra fino agli anni quaranta del secolo scorso ed il problema era soprattutto quello di individuare, nel giardino, le zone da indagare per prelevare materiale biologico (legno o semi) riconducibili alla vite e che potessero essere ripuliti ed analizzati in laboratorio. I rilievi fotografici (tra cui alcune foto aeree scattate prima del bombardamento) hanno permesso di identificare con grande precisione le zone del giardino su cui concentrare le attività di scavo.

Come si sono svolte le ricerche? Con quale metodo?

Riuscire a dare un’indicazione, la più accurata possibile, di quale fosse il vitigno coltivato da Leonardo da Vinci nella sua vigna è la missione, quasi impossibile, di un progetto che ha avuto inizio nel gennaio del 2004. L’approccio è stato multidisciplinare, coinvolgendo livelli culturali diversi e complementari: genetico-molecolare e storico. La caratterizzazione molecolare dei singoli campioni rinvenuti presso lo scavo eseguito nel giardino della dimora degli Atellani, se fine a se stessa, avrebbe dato risultati frammentari e inconcludenti. Il confronto con varietà di vite già coltivate e note ai tempi del soggiorno di Leonardo da Vinci a Milano era essenziale per dare un nome al vitigno misterioso. Per questo, l’attività di selezione e raccolta del materiale e di analisi molecolare è stata accoppiata, in parallelo, ad un’attività di analisi di fonti storiche relative alla descrizione di vitigni coltivati in epoca medievale e ad un censimento presso gli Orti Botanici, sede di erbari, i più importanti e prestigiosi d’Italia ed Europa per valutare la consistenza delle risorse genetiche di Vitis vinifera catalogate, verificarne la data di prelievo (interessanti sarebbero stati campioni collezionati attorno al 1500-1600) ed eventualmente ottenere qualche frammento di foglia da sottoporre ad una tipizzazione molecolare e successivo confronto con il fingerprint genetico ottenuto per il vitigno di Leonardo.

Ci dia qualche informazione – almeno quelle più facilmente comprensibili per noi profani – del complesso lavoro svolto, delle difficoltà incontrate nella ricerca e, se è accaduto, anche di qualche episodio utile alla soluzione del problema.

Non è complicato descrivere il lavoro fatto. La prima caratterizzazione è stata condotta su ventitré campioni ottenuti dallo scavo. Il Dna genomico è stato isolato ed estratto grazie ad un kit commerciale. La qualità degli estratti è stata saggiata su gel d’agarosio e questo ha permesso di verificare da quali e quanti campioni era stato possibile isolare l’acido nucleico, riducendo il numero dei campioni su cui proseguire le analisi a diciassette. La qualità del materiale ottenuto da questa prima estrazione, seppur soddisfacente, è sembrata in ultima analisi migliorabile, dal punto di vista quali-quantitativo. Per questo motivo si è deciso, di inserire, nel protocollo di caratterizzazione, un passaggio che ci ha permesso di arricchire la soluzione di estrazione di Dna. La tecnica individuata per ottenere un incremento nella concentrazione di Dna e migliorarne al contempo la qualità (ad esempio riparando e ricucendo alcuni dei frammenti che l’ossidazione dell’esposizione ad agenti chimici e batterici presenti nel suolo avrebbe potuto apportare) è nota come Whole Genome Amplification (Wga). Questa è comunemente utilizzata sia in campo medico, sia a supporto dell’archeologia molecolare, nei casi in cui il materiale di partenza sia particolarmente scarso, o quando esso provenga da organismi vegetali e/o animali semi-fossili e venuti alla luce in seguito a scavi archeologici. Nel nostro caso, il materiale vegetale non presentava un’età particolarmente critica (visto che tutte testimonianze e i documenti relativi alla proprietà segnalavano una continuità temporale nella presenza della vigna fino all’incendio della metà del 1900), ma l’incertezza sulle condizioni di conservazione, l’esiguità del numero di campioni che si è potuto prelevare e, non ultimo la presenza del fuoco, suggerivano la necessità di migliorarne la qualità onde evitare dati parziali e poco indicativi e/o l’ottenimento di artefatti che potessero dare indicazioni fuorvianti.

Meno semplice del previsto. Ma come è stato possibile avere la certezza dell’identificazione del vitigno?

Il risultato ottenuto è stato più che soddisfacente per tutti i campioni sottoposti ad analisi ed ha consentito di ottenere materiale sufficiente non solo per il genotyping completo di ogni singolo campione, ma anche di avere per 13 campioni una buona dote di Dna da utilizzare per la corretta identificazione della specie di appartenenza. Se infatti il Dna era stato infine purificato e portato a concentrazioni idonee alla prosecuzione delle analisi, la certezza che si trattasse di materiale proveniente dalle radici delle viti presenti un tempo nel giardino non c’era ancora. L’assoluta certezza che i campioni appartenessero a Vitis vinifera è arrivata sottoponendoli ad analisi Barcoding (Box). Sono stati sequenziati tre geni: rbcL, matK, psbA-trnH che nelle piante (nelle angiosperme in particolare) sono comunemente utilizzati per indagini di tipo filogenetico. I risultati hanno confermato l’appartenenza di tutti i campioni selezionati al genere Vitis e alla specie Vitis vinifera, scongiurando in questo modo la selezione di materiale proveniente da altre specie (vitacee ornamentali, o americane). Conclusi questi passaggi preliminari si è proceduto all’identificazione del vitigno tramite l’utilizzo di marcatori molecolari.

Viene spontaneo chiedere se questo lavoro ha anche una ricaduta sul lavoro più attuale che lei svolge per centinaia di cantine in Italia e nel mondo per rafforzare i vitigni di qualità anche in presenza di così importanti cambiamenti, in particolare quelli climatici.

La biologia molecolare si è rivelata, negli ultimi venti anni, uno strumento essenziale al servizio della ricerca in campo viticolo. Non solo, come accade per altre specie, nella caratterizzazione e descrizione di geni coinvolti in funzioni  essenziali o nello sviluppo di patologie, ma anche per comprendere le intricatissime vicende evolutive della specie, la sua domesticazione e le modifiche che nei millenni l’uomo ha apportato al suo genoma. Svelando una storia ricca e complessa, seconda per fascino e seduzione solo a quella umana. Gli strumenti diagnostici che si è deciso di utilizzare in questo caso sono gli stessi che comunemente vengono utilizzati negli studi identificazione e ricostruzione di pedigree: i marcatori molecolari microsatellite o Ssr (Simple Sequence Repeats). L’amplificazione e successiva elettroforesi capillare dei tredici campioni provenienti dallo scavo hanno dato risultati positivi, identici per tutti i campioni analizzati.

Torniamo alla ricerca sulla vigna di Leonardo. Quindi siamo ora vicini alla soluzione?

Circa una sessantina di erbari (presso orti botanici e musei) sono stati presi in considerazione a livello nazionale e dieci sono state le istituzioni europee coinvolte a tal fine (tra queste: i Royal Botanical Gardens di Londra-Kew, la Linnean Society, l’erbario dell’Università di Cambridge e quello dell’Università di Wageningen). Il censimento non ha però proposto spunti utili alla definizione del nostro database. Questo probabilmente perché i campioni conservati in tutte le istituzioni sono risultati di qualche secolo successivi al periodo di interesse. L’esiguità delle informazioni reperite dall’analisi degli erbari non ha influito sulla definizione delle varietà da inserire in database, che al termine dallo studio delle fonti storiche e della letteratura scientifica prodotta in questi ultimi 15 anni è risultato costituito da 200 varietà. Le varietà e i loro profili genetici sono state selezionate in database italiani ed europei e nell’ambito di pubblicazioni scientifiche prodotte negli ultimi 10 anni. Ma chi è entrato a far parte di questo gruppo ben nutrito ed eterogeneo? Un rapido tuffo nel passato e Trebbiani, Nebbiolo, Vernacce, Pignole e varietà affini sono entrate per prime. Del resto sono quelle di cui si parla in tutti i testi medievali, poi c’era Venezia che importava vini (e viti), al tempo, particolarmente gradite ai ceti più elevati, ed ecco entrare le Malvasie (che già da sole sono un gruppo ricco e molto variegato), poi tutte le varietà che al tempo si pensa potessero essere coltivate in Lombardia. Cosa quest’ultima non facile; la Lombardia è terra di confine e conquiste e molti sono i popoli che vi si sono avvicendati, ognuno portando usi, costumi e con questi anche tipi di “viti”. E finalmente tutto era pronto per capire quali fossero i gusti di Messer da Vinci in fatto di vino.

In realtà questo lavoro aiuta a capire un passaggio chiave nell’evoluzione del consumo del vino tra il cinquecento e il seicento fino ai giorni nostri. La mappa dei vitigni rivela anche una distribuzione geografica di usi, costumi, tecnologie e gusti che oggi troviamo quasi sempre fortemente integrati tra di loro ed è difficile cogliere le differenze senza questo background storico.

È infatti lo schema su cui abbiamo lavorato. Nella rappresentazione grafica proposta le distanze lineari sono direttamente proporzionali alle distanze genetiche emerse dalle analisi:

Il vitigno ignoto si trova in una posizione intermedia tra il gruppo delle Malvasie e quello dei Moscati, confermando la bontà dell’intuizione di inserire i principali vitigni aromatici nella nostra analisi in quanto rappresentativi di una particolare attitudine enologica in voga nel Basso Medioevo e particolarmente diffusa nei ceti medio-alti e nel clero. La rappresentazione grafica delle analisi di vicinanza genetica lascia poco spazio alle interpretazioni. Tra tutti i gruppi di vitigni selezionati (Malvasie, Moscati, varietà italiane del nordest e del sud ed europee) il vitigno di Leonardo mostra una grande affinità con una Malvasia. In particolare il vitigno appare particolarmente vicino ad un rappresentante del gruppo delle Malvasie (cerchio rosso) che, a sua volta, sembra più vicino al vitigno di Leonardo che non al suo gruppo di appartenenza iniziale. Questo vitigno è la Malvasia di Candia aromatica.

Abbiamo dunque la soluzione del problema ma ci manca la prova definitiva, se capisco bene: ancora non siamo sicuri al 100%.

Restringendo il campo di analisi, eliminando tutti i vitigni più distanti e poco affini, si è confermata la validità dell’analisi precedente. Il  nuovo gruppo di analisi è risultato essere costituito da quattro sole popolazioni oltre al vitigno di Leonardo (Malvasie, Moscati, vitigni provenienti dall’Emilia-Romagna e vitigni del nordest Italia). La Malvasia di Candia aromatica è vitigno caratteristico dei colli piacentini ed una delle 17 Malvasie iscritte al Registro Nazionale delle Varietà ed autorizzate alla coltivazione in Italia. Il punto di partenza comune per molte di queste varietà è il porto di Monemvasia, piccola cittadina del Peloponneso, dove i Veneziani nel corso della IV Crociata scoprono questo vino “dolce, aromatico, medicamentoso”. Venezia crea nell’isola di Creta (Candia) un enorme vigneto per la produzione di questo vino che ha un grande successo nell’Europa continentale. Nel 1666 l’impero ottomano conquista Creta e Venezia, pur di non perdere il ricco mercato, fa produrre un vino simile a quello originario lungo le coste del fiordo adriatico e tutti i vitigni dai quali si ricava questo vino cambiano nome e diventano d’incanto Malvasie aggettivate dal nome del luogo di produzione, del colore delle bacche o dalla loro più o meno spiccata aromaticità. Questo fiorente mercato arricchì la Serenissima per diversi secoli ed ebbe la sua naturale evoluzione nella diffusione non solo del prodotto finito, ma anche della materia prima (i vitigni) e delle informazioni relativa alla tecnica enologica. Per l’Italia, tutto questo si tradusse nell’insediamento in pianta stabile su tutto il territorio di numerose varietà caratterizzate dalla denominazione comune di Malvasia. Nel corso dei secoli queste piante si sono ben inserite nel contesto agronomico-viticolo locale divenendone parte integrante.

Quindi da una piccola vigna – anzi, dai resti bruciati di una piccola vigna – nel cuore di Milano stiamo risalendo ad un passaggio cruciale della storia del nostro paese. Non stiamo parlando solo di gusti e di un prodotto della terra ma di economia, di politica internazionale, di nuove tecnologie. È  così, professore?

Sembra strano a dirsi (forse non troppo visto che dietro a tutto c’è pur sempre il genio di Leonardo), ma il lavoro condotto alla Vigna della Casa degli Atellani ha aperto le porte a nuove ipotesi a riguardo dell’evoluzione e migrazione dei vitigni nel corso dei millenni. La storia dell’evoluzione delle piattaforme genetiche viticole dei Paesi mediterranei e caucasici (centri di domesticazione per la specie) è, dicevamo inizialmente, affascinante quanto quella delle popolazioni ed etnie umane. L’analisi dei genomi dei singoli vitigni eseguita con gli stessi crismi di quella proposta da Cavalli-Sforza ha svelato aspetti e caratteristiche molto vicine a quella delle migrazioni umane della preistoria, dei traffici commerciali di Fenici, Romani, Greci in tempi antichi e della Serenissima in tempi più recenti. Le malvasie ne sono un esempio calzante. È sbalorditivo vedere come uno stesso genotipo si ritrovi con nomi diversi (Malvasie di Dubrovnik, Malvasia delle Lipari, Malvasia di Bosa, Malvasia di Sitges, di Ischia, delle Canarie, e così per altri decine di casi) in tutti i porti interessati dai traffici commerciali dell’antichità. Appare del tutto logico pensare che il vitigno di Leonardo, quindi, fosse di origine greca ed importato, come voleva la moda del momento. Ma proprio la ricerca delle fonti storiche svolta per questo lavoro ha aperto a nuove ipotesi. Candia infatti, non è solo il nome dell’isola di Creta, ma anche il nome del paese in Lomellina di cui Giacometto della Tela, ossia Atellani, era podestà. Sembra quindi riproporsi il dilemma dell’uovo e della gallina e per la verità alcune delle indagini già condotte hanno mostrato come la nostra Malvasia abbia parecchi punti di contatto con vitigni tipici dell’Italia settentrionale, come alcuni Lambruschi e alcune altre Malvasie.

Ma perché Leonardo era così legato alla sua vigna? Cosa lo affascinava tanto?

Queste due domande sono probabilmente venute in mente a tutti coloro che abbiano ascoltato o letto la storia che abbiamo appena descritto. Non abbiamo la risposta, ma possiamo fare delle supposizioni in merito. Il periodo in cui Leonardo lavora all’“Ultima cena” è un momento di cambiamento climatico. Leonardo non era indifferente a questi argomenti, nel Codice Atlantico sono infatti depositate alcune sue riflessioni in merito ai cambiamenti del clima descritti in funzione della loro correlazione e del loro impatto sul ritmo di deposizione della lignina nelle cortecce dia alcune specie arboree. Secondo alcune testimonianze, si sa inoltre che era particolarmente interessato ad alcuni report che provenivano da alcuni monasteri benedettini della Borgogna, dai quali Leonardo percepisce il cambiamento delle epoche di vendemmia a causa del raffreddamento causato dalla “piccola glaciazione”. Sul lato sinistro dell’“Ultima cena” si intravede quasi tra le mani di Matteo, l’immagine purtroppo degradata di una cesta di frutta, una natura morta. È questo un soggetto artistico inconsueto per l’epoca, tanto che il Vasari definisce questa rappresentazione come la “maniera nuova”, una sorta di naturalismo, che attira il Caravaggio, il primo italiano a disegnare sul modello fiammingo nature morte. Il Caravaggio a quasi cento anni dalla realizzazione del dipinto leonardesco visita con interesse il cenacolo della chiesa di S. Maria delle Grazie e trae lo spunto per disegnare a Roma nel 1599 il “Canestro di frutta”, la prima delle numerose nature morte, serie che si concluderà con la “Cena di Emmaus” del 1602. Ma cosa ha di così particolare la cesta di frutta? È rappresentato tra i vari frutti un grappolo di uva sul lato sinistro della cesta ed una foglia di vite sul lato destro. Grappolo e foglia appartengono alla Malvasia di Candia che Leonardo coltivava nella sua vigna e che il Caravaggio riproduce nel suo cesto. A questa conclusione si è giunti attraverso uno studio ampelografico della foglia riprodotta. E a questo punto, con una certa soddisfazione, possiamo essere sicuri anche del risultato raggiunto dalla nostra ricerca.

(Antonio Napoli)