Il progresso scientifico, legato a nuove tecnologie sempre più sofisticate e veloci, permette oggi di affrontare il tema della diagnosi precoce, o addirittura dell’ipotesi predittiva di molte patologie, anche in assenza di sintomi conclamati, con modalità insospettate fino a pochissimi anni fa. Poco invasive, economiche quanto basta, sufficientemente sicure nelle conclusioni che se ne possono trarre.



In Italia è quanto si propone di fare lo screening neonatale allargato su oltre 40 patologie di tipo metabolico, diventato legge tre anni fa. Tre anni fa infatti in Italia è entrata in vigore la legge 167/2016 “Disposizioni in materia di accertamenti diagnostici neonatali obbligatori per la prevenzione e la cura delle malattie metaboliche ereditarie”. Una legge che pone il nostro Paese all’avanguardia in questo settore e costituisce un punto fermo da cui partire per rendere giustizia e dare uguali diritti ai bambini che nascono ogni anno e per i quali sussisteva ancora una forte disparità per quanto riguardava il numero di malattie sulle quali si effettuava lo screening neonatale.



Pressoché contemporaneamente negli Stati Uniti la proposta diagnostica iniziale offerta ai neonati si è dilatata fino ad includere il sequenziamento genomico completo. Ma lo screening dei neonati per i rischi per la salute fatto usando il sequenziamento genomico può sollevare questioni etiche e di equità. Gli stessi pediatri americani hanno espresso le loro perplessità con un documento ufficiale, su cui vale la pena riflettere attentamente, nell’ipotesi che anche in Italia prima o poi si voglia passare da quanto prevede la legge 167/2016 al sequenziamento genomico completo, offerto a tutti, e magari a carico del Ssn.



Accanto agli studi volti a determinare i meccanismi di controllo dell’attività genica, negli anni Settanta si è sviluppato un filone di ricerca molto importante, finalizzato a sequenziare il Dna. Sequenziare vuol dire determinare l’ordine dei nucleotidi nella molecola del Dna. A volte il sequenziamento viene confuso con la “decifrazione” del Dna, ma in realtà esso è solo il primo passo in questa direzione, per quanto importante. Dopo avere sequenziato una molecola di Dna, infatti, i biologi molecolari devono studiarla per capire cosa significhino le sequenze che hanno identificato. Negli ultimi anni grazie alle tecniche di sequenziamento automatico è stato possibile arricchire rapidamente le nostre conoscenze, rendendo più chiari tanti meccanismi di azione e di interazione tra le diverse sequenze genetiche.

Si tratta di un tema che da sempre appassiona non solo i clinici e gli studiosi di biologia molecolare, ma anche coloro che si occupano della sanità a livelli molto alti di programmazione e debbono prendere decisioni che riguardano l’allocazione delle risorse, la scelta delle linee strategiche e le azioni di prevenzione in modo sempre più mirato.

Ma non c’è dubbio che è al singolo individuo nella concretezza della sua vita che queste nuove conquiste scientifiche pongono interrogativi non facili da risolvere. Sapere se mi ammalerò e di cosa mi ammalerò in anticipo rispetto alla comparsa stessa della malattia dovrebbe permettere di curarmi prima e meglio, e magari anche di evitare quella malattia se la scienza nel frattempo avrà individuato i mezzi opportuni.

Ma se non esistono terapie adeguate, la risposta individuale a queste previsioni può essere molto difficile da prevedere in anticipo. In altri termini posso sapere se e come mi ammalerò, ma non sono certa di sapere come reagirò davanti a una malattia che ad oggi appare ancora incurabile.

In Italia finora si è seguito un iter molto attento a tenere insieme diagnosi e cura: lo screening si esegue su quelle patologie su cui è possibile intervenire, e conviene intervenire, il più precocemente possibile con vari meccanismi: dalla somministrazione di farmaci sostituivi per ovviare ad alcune carenze, alla dieta da cui sono stati esclusi alimenti che il soggetto non è un grado di metabolizzare. In ogni caso si procede a diagnosticare quelle patologie su cui è possibile intervenire a fondamentale vantaggio del soggetto e della sua salute.

Lo screening neonatale è un semplice test non invasivo che permette di identificare precocemente numerose malattie, anche gravissime, entro i primi giorni di vita dei neonati. È di fatto un programma di medicina preventiva: un’indagine a tappeto eseguita su tutta la popolazione di bambini che non hanno segni o sintomi di malattia, per ricercare determinate patologie che potrebbero ostacolare il loro normale sviluppo. Lo scopo dello screening neonatale è quello di rilevare le condizioni potenzialmente fatali o invalidanti nei neonati il prima possibile, possibilmente prima che il bambino mostri i segni o i sintomi di una malattia. La diagnosi precoce permette di iniziare immediatamente il trattamento terapeutico, che riduce o addirittura elimina gli effetti della patologia. Molte delle condizioni rilevabili dallo screening neonatale, se non trattate, causano sintomi ed effetti gravi, come danni permanenti al sistema nervoso, disabilità intellettive, fisiche e dello sviluppo, e in alcuni casi anche la morte.

Lo screening neonatale è un processo che inizia con un esame del sangue, un prelievo che sui neonati si esegue sul tallone, ed è scarsamente doloroso. Nel caso in cui il risultato del test fosse positivo i genitori vengono richiamati dal punto nascita o dal centro screening per eseguire ulteriori accertamenti, chiamati test di conferma diagnostica. Nel caso in cui si arrivi alla conferma della diagnosi di una delle patologie sottoposte a screening i genitori potranno portare il bambino in un Centro Clinico di Riferimento che provvederà ad iniziare il trattamento per la specifica patologia: dal trattamento dietetico specifico alla terapia farmacologica, sempre sotto un’attenta sorveglianza.

Quindi i criteri fondamentali seguiti in Italia, e resi obbligatori dalla legge, sono sostanzialmente di due ordini e riguardano prima di tutto il consenso informato dei genitori e quindi la possibilità che alla diagnosi segua un determinato tipo di trattamento, a seconda del problema identificato.

Il Comitato nazionale per la bioetica, proprio in ragione della complessità del tema non ha adottato conclusioni etiche generali, ma ha sempre richiamato l’attenzione su alcuni obiettivi eticamente rilevanti a proposito di test e screening genetici; consulenza genetica; test predittivi; caratteri comportamentali complessi; test genetici nell’ambiente di lavoro; archiviazione di profili del Dna per l’identificazione, richiamandosi ad alcuni principi della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina del Consiglio d’Europa (sui temi della vita privata e del diritto all’informazione; non discriminazione; e test genetici predittivi) e alla Dichiarazione universale su genoma umani e diritti dell’uomo dell’Unesco.

Oltre al diritto a sapere si ribadisce anche il diritto a non sapere, soprattutto quando non ci sono alternative utili, ma si sottolinea l’interesse verso i test di suscettibilità genetica che consentono di individuare genotipi che svilupperanno o meno determinate patologie solo se esposti a loro volta ad una serie di determinanti ambientali, che moltiplicano il rischio di sviluppare una determinata patologia. In altri termini genetica ed epigenetica rappresentano un binomio che va tenuto costantemente sotto controllo. Come è possibile verificare in determinate condizioni a forte inquinamento ambientale. Perché in una popolazione esposta agli stessi fattori di inquinamento, come ad esempio amianto, rifiuti tossici nella “terra dei fuochi”, ecc. alcuni si ammalano di cancro ed altri no. Cosa rende più fragili alcune persone rispetto ad altre, quali profili genetici esprimono una maggiore sensibilità…

Il poter sapere oggi è una grande risorsa, a cui contribuisce sia quanto previsto dalla normativa italiana sia il sequenziamento del genoma nei neonati, ma il costo dell’intero processo, per quanto ridotto grazie alle tecnologie disponibili, non giustifica né la somministrazione obbligatoria e indiscriminata, perfino senza consenso dei genitori, come è accaduto negli Usa, né tanto meno l’obbligatorietà di prendere atto delle risposte del test.

Anche questa può diventare una nuova forma di violenza tecnocratica che prevarica la libertà del soggetto, che può e deve sapere tutto quanto è funzionale alla sua salute, nella misura in cui può disporre delle risorse necessarie per curarsi. Ma non può essere obbligato a sapere quanto incombe su di lei in chiave del tutto ipotetica e per cui nulla può fare per evitare l’impatto negativo, almeno sotto il profilo psicologico. Tutti sappiamo di dover morire, prima o poi, ma fortunatamente ignoriamo quando e come, a meno che non possiamo intervenire concretamente per evitare determinate situazioni o per lo meno per ridurne il danno.