In un’Italia abituata a tutto, anche la notizia di una ragazzina di 12 anni che tira fuori dallo zaino un coltello per colpire un compagno reo “di aver fatto la spia alla professoressa” circa una copiatura, rischia di diventare qualcosa di routine, un fatto a cui prestare marginale attenzione. La vicenda, avvenuta in una scuola media romana, è però tutt’altro che insignificante e mette in luce molto bene le responsabilità e i rischi di un’educazione che si occupa di tutto tranne che dell’unica cosa che realmente conta, ossia la persona.



Da dove spunta il coltello della ragazzina? Come ci è arrivato a scuola? Chi ha permesso che lo mettesse nello zaino? Che cosa significa essere genitori? Adempiere alle responsabilità derivante dalla legge o vivere una reale dimensione di cura? Non sappiamo niente della famiglia della ragazza, del suo contesto sociale e culturale, ma la grande crisi della genitorialità – oggi – consiste nella ricerca costante da parte degli adulti di essere adeguati al modello di padri e madri che hanno in testa. La questione, invece, è un’altra: il punto, in una famiglia, non è “come sei tu con gli altri”, ma imparare ad esserci, a stare nella vita dei figli occupando lo spazio limitato che a ciascuno è destinato, continuando a vivere con libertà e passione la propria esistenza.



Da dove viene la rabbia di quella ragazzina? Come è possibile pensare di colpire con un coltello un compagno che ha fatto la spia all’insegnante su una banale copiatura? Chi educa le emozioni dei nostri ragazzi? Siamo davvero convinti di lasciare l’educazione emotiva dei più giovani alle piattaforme di streaming, alle serie tv, alla musica trap? È una strada facile quella che è stata scelta: delegare al contesto l’educazione emotiva degli adolescenti e arrogare a noi quella delle cosiddette “questioni importanti” come la scuola o lo sport. Invece è proprio nelle emozioni che ci sarebbe tanto bisogno di famiglia e tanto bisogno di scuola. Non per spiegare qualcosa, non per dire quello che va bene e quello che va male, ma per spendere del tempo, per sprecare del tempo gratuito, nel vivere le emozioni con loro. Gli adulti con i ragazzi credono di dover parlare: loro, invece, ci chiedono di stare. Scendendo dal trono, abbandonando i nostri ruoli, il nostro linguaggio, le nostre certezze. Vivendo con loro. La prima scuola non è quella dove si studia qualcosa, ma dove si sta con qualcuno.



Ed è questo il terzo e ultimo punto drammatico di questa vicenda: le responsabilità delle istituzioni che riempiono i curricoli scolastici di educazione civica, di progetti, di fondi destinati alle più diverse attività delle scuole, ma non fanno formazione umana ai docenti, non spiegano chiaramente che ciò che un adulto deve fare con i giovani è abbandonare sé stesso, spogliarsi dei propri abiti, e andare ad abitare in mezzo a loro. Difficile per una scuola elefantiaca e spesso lontana dalla realtà. Eppure, duemila anni fa, qualcuno ha preso molto seriamente questo metodo, questa strada. Ed è l’unico – fino ad oggi – ad aver fatto la rivoluzione. La rivoluzione dell’umano.

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