Si intrecciano due dinamiche profondamente simili nella storia di una tredicenne di Bari che si rivolge al 114 per denunciare presunti maltrattamenti domestici culminati nell’interdizione dello smartphone e nell’interruzione del collegamento a internet da parte dei genitori. La notizia avrebbe dell’incredibile se non ci fossero due dettagli a renderla terribilmente attuale: l’indagine della procura di Trani, che ha effettivamente acclarato come la privazione del telefonino fosse la punta dell’iceberg di un clima casalingo ostile e violento nei confronti della ragazza, e le rilevazioni della ASL che – attraverso i servizi di monitoraggio e assistenza di cui normalmente si avvale – ha appurato che sarebbero state dieci le ore trascorse dalla studentessa nel magico mondo dei social, ore che avrebbero compromesso l’attenzione e il conseguente profitto scolastico, generando tensione e scontro all’interno del focolare di casa.
È chiaro che, al solo udire la vicenda, scaldano i motori i due partiti sempreverdi dell’educazione: coloro che tifano per l’autorità genitoriale, e per la conseguente capacità di imporsi sulle devianze dei figli, e coloro che – al contrario – promuovono l’arrendevolezza dei padri come condizione per il dialogo e la crescita armonica degli adolescenti. Il punto, tuttavia, è un altro. È un problema di rapporto con la realtà che riguarda adulti e giovani.
Un adulto oggi non comprende davvero che cosa succeda a quel bambino che ha visto crescere davanti ai propri occhi e che, ad un certo punto, trova nel rapporto con il telefono conforto e soddisfazione. Un adulto immagina, teorizza, cerca soluzioni. Ma nessuna soluzione o idea sembra funzionare. Vale per il telefono, come per il rapporto che tanti giovanissimi hanno con il sesso, con il fumo, con l’alcool. Si tollera, si cercano spiegazioni teoriche, ma non si arriva mai al dunque. E il dunque è riconoscere che l’altro – il figlio – è un bisogno che io non conosco e che forse non so neppure amare.
È paradossale: senza la percezione del mistero che l’altro è, ogni tentativo di rapporto con lui diventa astratto, decade in moralismo o buonismo, perbenismo o spiritualismo. Io non ti conosco, io non so chi sei, e l’unica possibilità di conoscerti è incontrarti ogni giorno, avvicinarmi a te e ri-conoscerti ogni mattina. Altrimenti tutto diventa ricatto, tutto diventa violenza: o le azioni educative, anche quelle tese a mettere un argine legittimo a comportamenti stupidi, stanno dentro questo rapporto di conoscenza oppure sono forme alternative, e sofisticate, di violenza.
Dall’altra parte, quella della tredicenne, troviamo un effetto-droga che attutisce in modo impressionante l’urto con la realtà: il meccanismo dei social consiste nel fornire costantemente nuovi impulsi e nuovi stimoli al cervello in modo da spostarne continuamente l’attenzione e creare una sorta di barriera interiore, di distanza da sé. Si tratta di una forma artificiale di narcisismo: il digitale crea un’immagine della realtà e di sé stessi che è lontana anni luce dai propri bisogni, dal proprio vero io.
Il punto, però, è capire perché un ragazzino cada nella trappola. La risposta è purtroppo semplice: ciò che configura di più l’autocoscienza dei giovanissimi è quella frase di Gaber che dice che ciascuno di noi si sente destinato “ad andar sempre più verso sé stesso e a non trovar nessuno”. Mentre all’adulto manca spesso il senso del mistero, al tredicenne questo “misterio dell’esser nostro” – per dirla con Leopardi – appare come un ignoto, come qualcosa di cui temere. L’ignoto suscita paura, il Mistero genera stupore, diceva Gregorio di Nazianzo. La paura è il sentimento dominante della giovinezza di questo scorcio di secolo: paura di non valere, paura di non essere abbastanza, paura di non poter provare amore. L’immagine, allora, dà conforto e il susseguirsi incalzante delle immagini sui social costruiscono una realtà alternativa che porta serenità.
È pazzesco pensare che una tredicenne possa chiamare il 114 dicendo che il problema è la privazione del telefono, ma è altrettanto pazzesco ridicolizzarla, non riconoscere quale feticcio il telefono sia diventato nella sua vita. Sarebbe bello avere una tale serietà col proprio cuore da acquisire l’autorevolezza di chi, senza remore, si siede accanto ad un ragazzo distratto e comincia a parlargli. La forza di quel gesto, così semplice e così vero, non risolverebbe nessun problema. Ma darebbe a entrambi un inaudita possibilità: quella di un silenzio così carico di vita da far sorgere, in mezzo alla confusione di questi nostri giorni, qualcosa di nuovo. Qualcosa che si possa ancora chiamare speranza.
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