Passato praticamente inosservato in Italia, lo scorso settembre la Commissione europea ha reso pubblico il rapporto annuale finalizzato a fornire un monitoraggio dei vari sistemi di istruzione dei paesi dell’Unione, e a verificare il raggiungimento dei traguardi fissati per il 2020. L’occasione è stata il secondo vertice europeo sull’istruzione.



Archiviata la fase degli obiettivi per 2010 della “strategia di Lisbona” – obiettivi in gran parte non raggiunti – negli anni passati l’Ue si è limitata a registrare la mancanza di risultati coerenti e completi per l’apprendimento permanente e ha disposto un nuovo quadro strategico.

Non si è interrogata a sufficienza sulle ragioni per cui le azioni di coordinamento sulle politiche nazionali non siano state tali da produrre effetti efficaci e duraturi sui singoli sistemi scolastici. E non si è posta il problema di fornire strumenti e risorse a supporto delle politiche nazionali.



Il nuovo quadro per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione (il cosiddetto “ET 2020”) individua 4 obiettivi comuni ai paesi europei, e 7 parametri di riferimento che gli Stati membri dovrebbero raggiungere entro il 2020, nell’ottica di consentire un’evoluzione positiva dei sistemi nazionali di istruzione; la finalità è quella di rendere pronti i cittadini in formazione a rispondere alle sfide di un mercato del lavoro competitivo, interconnesso e in continuo cambiamento a livello planetario.

Il rapporto, quest’anno, dedica particolare attenzione al tema degli insegnanti e li considera come principale fattore strategico per il successo scolastico. Si articola in due volumi, più varie schede sintetiche informative: il primo volume offre un monitoraggio e una chiave interpretativa globale, mentre il secondo, più analitico, contiene le relazioni dei vari paesi.



Le informazioni riprodotte costituiscono una vera e propria miniera e rendono possibili analisi e riflessioni a livelli diversi di complessità ed elaborazione.

Per quello che riguarda la situazione italiana, già la semplice lettura della tabella degli indicatori di pagina 152 del II volume coglie aspetti peculiari del nostro sistema di istruzione, dei suoi punti di forza e di debolezza, e consente di leggere la situazione italiana nel confronto con quella degli altri paesi membri.

Solo per riferirsi ad alcuni temi, emerge come dal 2009 al 2018 si possa riscontrare un’evoluzione positiva sul piano dell’abbandono scolastico. Gli studenti italiani di età 18-24 anni che abbandonano la scuola passano dal 19% al 14,5%: si tratta di un miglioramento, ma siamo ancora lontani dal 10,8% della media europea e dal 10% di benchmark fissato.

Passa dal 19% al 27,8% la media di persone in età 30-34 anni che conseguono un diploma di “istruzione terziaria” (cioè di tipo universitario), contro una media europea (e un benchmark) del 40%.

Ottimi, come da tradizione, sono invece i risultati nostrani sul piano dell’educazione nella fascia di età 4-6 anni: l’Italia presenta una percentuale pari al 95,1% di copertura del servizio (il benchmark è del 95% e la media europea del 95,4%). Da segnalare, comunque, anche in questo caso un peggioramento, dal momento che la copertura nel 2009 era pari al 99,8%, quasi 5 punti percentuali in più.

Interessante – anche se si tratta di informazioni note – è il confronto tra Italia ed Europa sul piano delle risorse impegnate nell’istruzione. Dal 2009 al 2018 la percentuale di Prodotto interno lordo destinata alla scuola italiana passa dal 4,6% al 3,8%, contro medie europee rispettivamente del 5,2% e del 4,6%. Anche la spesa media per studente, ai vari gradi di istruzione, è più bassa in Italia che in molti paesi europei.

Ma il dato che sicuramente attira di più l’attenzione, per il suo carattere emergenziale, è rappresentato dalla percentuale di quindicenni che hanno competenze in lettura, matematica e scienze al di sotto di un livello accettabile. E qui Italia ed Europa – fatte salve poche eccezioni – sono accomunate da un comune destino negativo.

Già la strategia di Lisbona aveva prescritto per il 2010 una diminuzione del 20% dei quindicenni con scarse abilità sulle competenze chiave. L’esito è stato disastroso, dal momento che la media europea ha riprodotto una diminuzione di solo l’1,01% mentre, in Italia, non si è registrato alcun miglioramento, anzi addirittura un peggioramento pari all’11,11%.

Per il 2020 il benchmark fissato è il seguente: portare sotto il 15% la percentuale di studenti con scarse competenze in lettura, matematica e scienze, come emerge dalle rilevazioni Ocse-Pisa.

I dati riportati nel rapporto si riferiscono al 2015 dal momento che i dati di Ocse-Pisa del 2018 saranno pubblicati solo nelle prossime settimane; secondo gli analisti, però, non si dovrebbero registrare cambiamenti significativi.

A livello europeo, nel 2015 gli studenti con scarse competenze in lettura sono il 19,7% del totale, in matematica il 22,2% e in scienze il 20,6% (nel 2000 le percentuali erano rispettivamente del 19,5%, del 22,3% e del 17,7% – da notare il peggioramento per la lettura e per le scienze).

E in Italia? Anche in questo caso le nostre percentuali sono peggiori di quelle europee: 21% per la lettura, 23,3% per la matematica e 23,2% per le scienze (da registrare anche il peggioramento per le scienze dal 2009 al 2015).

Occorreva aspettare il rapporto europeo per cogliere la criticità della nostra situazione in relazione alle competenze di base dei nostri studenti, criticità che qualche organo di stampa ha messo in evidenza? Ovviamente no. Le rilevazioni dell’Invalsi, a tal proposito, ci forniscono già il quadro poco confortante che abbiamo descritto.

Proprio pochi giorni fa, il 7 ottobre, Roberto Ricci, in un editoriale sul sito “Invalsi open”, introduce il concetto di dispersione scolastica implicita. Sono due le tipologie di insuccesso scolastico: quella, nota, degli studenti che abbandonano gli studi o vengono bocciati, e quella, altrettanto grave, di coloro che, pur conseguendo i titoli di studi, non maturano le competenze richieste. Questi ultimi rientrano nella categoria della dispersione scolastica implicita, che l’Invalsi, sommata a quella esplicita, stima pari al 20% degli studenti, un dato perfettamente in linea con quanto descritto dall’Ue.

I dispersi “impliciti” sono più difficili da riconoscere e da identificare e possono avere le stesse difficoltà ad affrontare con serenità e successo la vita lavorativa dei colleghi che hanno abbandonato la scuola.

È dunque importante, sostiene Ricci, individuare il problema e intervenire già a livello di scuola primaria e di scuola secondaria di I grado, per progettare e attuare azioni correttive e interventi di potenziamento durante l’iter formativo, in una fase del percorso in cui si possa ancora agire efficacemente.

Solo in questo modo, con un approccio che agisca sull’intero processo formativo, sin dalle sue fasi iniziali, sarà possibile ottenere risultati soddisfacenti e incisivi sul piano delle competenze in uscita dei nostri studenti.