Gentile direttore,
uno dei fenomeni più sottolineati in questo periodo dell’anno, nel corso dei consigli di classe delle scuole superiori, è sicuramente quello che riguarda le cosiddette “assenze mirate”, o “assenze strategiche”. In molti casi, in particolare quando sono state programmate delle verifiche, le “diserzioni” diventano di massa. Prima di guardare alle cause, diciamo subito le conseguenze di tali eventi: lunghe e deprimenti prediche e lamentele dei docenti, nelle riunioni collegiali con i rappresentanti degli studenti e dei genitori, sull’immaturità e sull’irresponsabilità dei ragazzi; minacce di gravose verifiche di recupero; rilievi sulla mancanza di impegno e di studio costante delle varie classi. Tutti escono tristi e sconfitti da tali appuntamenti, abbattuti nell’animo, affranti nelle prospettive. I genitori, con la coda tra le gambe.



Negli ultimi consigli ai quali ho preso parte sono rimasto in silenzio. Ho voluto ascoltare e cercare di capire. Con gli studenti a testa bassa, guardando a terra, davanti a noi, ho sentito rosari di rimproveri e recriminazioni, voci deluse e sconsolate. È incredibile come i professori riescano a dire lo stesso lamento con mille parole diverse e con le più svariate intonazioni; certamente, la faccia dell’esasperazione è sempre la stessa. Le teste dei rappresentanti dei genitori annuivano. Una volta cercavano di controbattere. Così anche gli studenti. Adesso sono rassegnati. E dicono: avete ragione.



Mi venivano tante domande, ma stavolta non le ho poste. Mi sembrava di essere un’isola deserta. In alcuni momenti ho cercato anche di condividere le numerose preoccupazioni sulle verifiche non svolte, i ritardi della prima ora, la maggioranza della classe che scappa dalle interrogazioni. Sono anche stanco di essere additato come il bastian contrario a scuola. Ma le domande – solo domande, perché le soluzioni non le ho – sorgono quasi da sole, e a volte mi stupisco nel non sentirle vive in nessuno, tanto esse mi sembrano semplici e aderenti alla realtà: ma se la maggior parte della classe non entra a scuola per svolgere una verifica o un’interrogazione, perché agisce così? Non viene da pensare che quello che ho spiegato in quella materia non è stato compreso affatto dai più? E non mi accorgo, durante le giornate di lezione, se diciotto ragazzi su venticinque non possiedono affatto quello che cerco di comunicargli? Se anche un singolo ragazzo continua a fuggire dalla mia materia, perché lo fa?



Molti dicono: io spiego e rispiego, ma loro non hanno voglia di studiare a casa, non si impegnano. Se vediamo uno scollamento così forte tra gli argomenti di cui trattiamo in classe e il loro interesse, e direi anche la loro vita, questo non fa sorgere una domanda sul nostro fare scuola?

Vado avanti: se i ragazzi vedessero in atto, come rilevante e fondamentale, un rapporto educativo – con l’insegnante che tiene conto di tutta la loro persona e delle competenze che ha raggiunto, del suo passo di crescita compiuto in un intero percorso – e non soltanto una valutazione definitiva e definitoria su di loro, un numero assegnato sulle loro spalle, non verrebbero forse a scuola lo stesso, anche se quel giorno non preparati alla perfezione?

Ancora: se i prof in consiglio parlassero tra loro, distribuendo in modo ragionevole e continuativo le varie forme di verifica, e non sovrapponendosi uno sull’altro, senza minimamente tener conto che oltre alla propria esistono altre dieci materie (tra cui anche ginnastica e religione, un tempo la nostra ancora di salvezza, oggi più implacabili delle altre discipline), i ragazzi mancherebbero in massa ai loro doveri?

Da ultimo, consideriamo il fatto che gli studenti, oltre a svolgere nel pomeriggio mille progetti attinenti al percorso scolastico (coro, musica, papirologia, teatro, cinema), hanno una loro vita sociale, sportiva, intima? Ponderiamo il carico di compiti e verifiche per permettere loro di avere anche una “libertà critica”? In sintesi mi pongo questa fondamentale domanda: come posso pretendere da un adolescente che trattenga dei saperi, se non mi rivolgo anzitutto al suo (e al mio) nucleo di interesse?

Ultimamente ho dato un tema in una quarta sul triste fatto di un ragazzo che, dopo una verifica fallita, si è buttato dalla finestra. Sono rimasto colpito da come ogni studente abbia aperto tutto se stesso e abbia voluto porsi con lealtà e sincerità di fronte alla sfida che la cronaca ci portava davanti. Sono emerse in classe le domande di senso, il perché si viene a scuola, le richieste di aiuto in un modo commovente e partecipato. Allo stesso tempo gli alunni hanno cercato di indicare – anche nelle materie, nella realtà studiata – i segni di risposta a questi loro drammatici interrogativi, a queste ferite che portano dentro tutti i giorni.

Purtroppo noi docenti ci nascondiamo spesso la nostra prima responsabilità: aiutare l’altro a camminare verso il proprio destino. Quando non partiamo da questo livello l’educazione è una falsità. Luigi Giussani, in un suo scritto, affermava che “è una politica, una politica di dominio, anche quando questa politica non ha l’Italia o l’Est europeo come spazio, ma ha soltanto la propria classe di ventiquattro alunni. Se non è volontà di comunicazione, di aiuto a vivere, a camminare verso il proprio destino, è l’affermarsi di un grande pretesto per poter sbarcare il lunario, per poter sfogare il proprio temperamento o per dominare l’altro. È una realtà politica, insomma (…) E può diventare politica, cioè violenza, il decidere come gli alunni debbono stare in classe, come debbono usare il tempo a casa, dar loro cinquantaquattro capitoli da tradurre perché così si crede di farli lavorare di più, di far loro imparare di più, che è una delle più solenni grossolanità in cui può cadere l’insegnante: scaricare la propria responsabilità di educatore sul far lavorare come bestie gli alunni” (Giussani, Realtà e giovinezza, la sfida).

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