Tre anni sembrano un limite temporale più che sufficiente per distinguere coloro che possono realisticamente tornare in cattedra da coloro che hanno ormai trovato un altro lavoro stabile. E dunque sarebbe utile che, dopo tre anni, l’interessato debba optare per la propria cattedra o per una diversa collocazione professionale. Con l’ulteriore vincolo, per evitare fin troppo ovvi aggiramenti, che il distacco non possa riprendere prima di un lungo intervallo di tempo: almeno dieci anni. Una tale misura, che non inciderebbe più di tanto sulle scelte professionali dei singoli, ridurrebbe però il fabbisogno annuale di cattedre per supplenze annuali di diverse decine di migliaia di unità. E quindi ridurrebbe parallelamente il maturare di quelle legioni di supplenti annuali triennali cui la legislazione europea offre tutela.



Un terzo intervento non inciderebbe forse sul numero dei precari da sistemare, ma certamente sulla loro qualità. Si dovrebbe stabilire che, per acquisire titolo alla stabilizzazione dopo tre anni di supplenza annuale, l’interessato debba svolgere, come parte del suo orario di servizio ed in aggiunta alle ore di insegnamento, un consistente numero di ore di tirocinio, in affiancamento ad un collega della stessa materia, titolare da almeno cinque anni. Tre ore settimanali sarebbero probabilmente una misura equa e sostenibile: naturalmente, con l’obbligo di partecipare alla programmazione, di assistere alle lezioni in classe e alle valutazioni periodiche e finali. Un lavoro aggiuntivo non retribuito? Non realmente, dato che la retribuzione consisterebbe nella conferma in ruolo dopo tre anni, bypassando il famoso concorso, della cui obbligatorietà costituzionale ci si ricorda solo quando si tratta di bloccare proposte alternative.



Sognare per sognare, si potrebbe pensare ad una quarta misura, non del tutto nuova, perché già introdotta con la legge 107/2015 e poi ritirata a furor di sindacato. Ma tutt’altro che priva di senso. Limitatamente a coloro che hanno titolo certo alla chiamata annuale, si dovrebbe consentire che possano fare domanda diretta ad un numero limitato di scuole e che siano le scuole a sceglierseli, previo un colloquio orientativo, fra quelli che hanno fatto domanda. La scelta di un tale canale, in alternativa all’attuale (teorica) disponibilità di tutte le scuole della provincia, dovrebbe costituire titolo preferenziale per la successiva conferma in ruolo. E, per fugare ogni polemica sul concorso fatto in casa, il colloquio dovrebbe consistere in una discussione sulle opzioni didattiche del candidato in relazione al PTOF della scuola (che è pubblico). Non in una replica dell’esame di abilitazione, che deve intendersi a quel punto come superato.



In teoria, ma solo in teoria, una commissione ministeriale è tecnicamente più preparata: in pratica, dati i numeri in gioco, si tratta di decine di sottocommissioni, diversissime fra loro per qualità dei componenti, ma anche per gli orientamenti pedagogici e didattici attesi. E dunque, anche in quel caso, la “parità di trattamento” è un mito. Per non dire che, anche nel migliore dei casi, vengono selezionati degli aspiranti “buoni” per qualunque scuola della Repubblica, indipendentemente dal contesto e dall’utenza con cui devono relazionarsi: e dunque, in sostanza, inadatti a ciascuna specifica istanza. Una selezione condotta in loco, dai futuri colleghi, potrebbe tener conto di queste variabili: ed anche di un’altra, fondamentale, come ben sa chi abbia esperienza di scuola. Si tratta della competenza relazionale, su cui naufragano non pochi degli aspiranti docenti. Sono aspetti che in un colloquio, magari accompagnato da una lezione di prova in classe, potrebbero invece emergere con grande chiarezza.

E, sempre nella stessa ottica, perché non prevedere che la domanda di reclutamento mirato sia obbligatoriamente accompagnata da una “lettera di motivazione”, in cui l’aspirante indichi le ragioni che lo hanno indotto a scegliere quella scuola e come si proponga di gestire le problematiche desumibili dal PTOF? Una tale opzione obbligherebbe gli aspiranti docenti a riflettere sulle proprie priorità e sulle sfide che si preparano ad affrontare. E la discussione con la “commissione” interna potrebbe far emergere le qualità personali, professionali e di relazione del candidato.

In realtà, l’unica obiezione che ha determinato l’affossamento di quella norma è stato l’offensivo sospetto che i “presidi sceriffi” avrebbero operato sistematici favoritismi. Ma il ragionare per patologie genera a sua volta patologie, che vediamo ogni anno e che non ci decidiamo mai ad affrontare. I benefici, in termini di tempo, di motivazione, di stabilità del rapporto di una simile formula potrebbero ben compensare, a livello di sistema, qualche possibile inconveniente. E, del resto, non mancano certo gli strumenti giuridici per contrastare e sanzionare eventuali abusi. E, in ogni caso, la “non scelta” non assolve dalle responsabilità sociali per gli esiti che ne derivano.

Si potrebbe forse continuare: ma le quattro misure qui ipotizzate, tra loro combinabili, potrebbero dare un significativo impulso alla riduzione del precariato nel suo insieme ed al miglioramento qualitativo di coloro che aspirano ad accedere all’insegnamento. Sapendo che nessuna da sola è risolutiva, ma che un loro utilizzo sinergico potrebbe forse smuovere una palude da troppo tempo stagnante.

(2 – fine)

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