Nel suo bel libro Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona (Vita e Pensiero, 2012) il sociologo inglese Frank Furedi riflette sul crescente prestigio del “nuovo” nelle società occidentali. In modo più vistoso nel continuo rinnovamento dei prodotti reclamizzati, ma anche in altri campi, come quello della politica e, non ultimo, in quello dell’istruzione. Scrive Furedi: “L’impulso ad affrancare l’istruzione dal passato nasce dal pregiudizio che le idee non attuali siano, per definizione, superate e irrilevanti”. Ovviamente, chiarisce l’autore, non si tratta di incoraggiare l’accettazione acritica di ciò che una generazione trasmette alla successiva, ma di riconoscere la necessità di fornire ai giovani gli strumenti per comprendere il mondo. È solo in relazione a una realtà che riescono a capire che i nuovi venuti possono trovare le idee e la forza per migliorarla.



Questo implica la necessità di impegnarsi per la preservazione del passato, sulla cui importanza Hannah Arendt come al solito si esprime senza aver paura delle parole: “Non vorrei essere fraintesa: secondo me il conservatorismo, o meglio ‘il conservare’, è parte essenziale dell’attività educativa”.

Di questa sorta di “idolatria del nuovo” è inevitabile che lo studio della storia sia la prima vittima. E per superare il disinteresse di una parte degli studenti ci si propone naturalmente di diffondere una “nuova” didattica. Che però ha dei contorni piuttosto nebulosi, dato che sarebbe centrata, invece che sul “nozionismo”, sulle cosiddette competenze. Le quali, trasportate dall’ambito del saper fare a quello del sapere, spesso non si capisce più in cosa consistano. In realtà il buon insegnamento della storia non ha mai favorito il pappagallismo acritico che gli viene imputato dai novatori. È stato anzi un potente e spesso affascinante strumento di educazione intellettuale e di apertura mentale, che difficilmente può fare a meno dell’ascolto di maestri colti e appassionati.



Purtroppo, dell’attuale conoscenza della storia da parte dei giovani non si occupano né l’OCSE, né l’INVALSI. Non abbiamo quindi basi “scientifiche” per misurare l’entità del problema. Tuttavia, qualche indagine in ambito universitario e le numerose testimonianze dei docenti, oltre al declino della preparazione in tutte le materie, indicano una situazione di cui preoccuparsi, ma soprattutto di cui occuparsi con misure concrete. Con questo intento, nei giorni scorsi è stata diffusa una lettera aperta al ministro Valditara, promossa dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e dal Comitato Fiorentino per il Risorgimento, in cui 128 firmatari, quasi tutti docenti nella scuola e nell’università, con una folta presenza di storici e insegnanti di storia, avanzano cinque proposte.



La prima è quella di “inserire dal prossimo anno una prova scritta obbligatoria di storia nell’esame di maturità di tutti gli indirizzi di studio” e in quello al termine del primo ciclo. La presenza di questa prova darebbe anche simbolicamente maggiore importanza alla storia e rafforzerebbe l’impegno degli allievi nello studiarla.

Viene poi chiesto il ripristino della scansione cosiddetta “a spirale” dello studio della storia, con la ripetizione per tre volte del percorso dalla preistoria ai nostri giorni. Questo consentirebbe agli allievi della scuola primaria di avere una prima conoscenza dell’età contemporanea e di tornare in seguito in modo più approfondito sugli argomenti già incontrati. In sostanza si tratterebbe di ripristinare la situazione precedente alla riforma Moratti del 2004, che spalmò il percorso dalla preistoria fino al Novecento sugli otto anni del primo ciclo (primaria più secondaria di primo grado).

A questo si è aggiunta una generalizzata riduzione del numero di ore dedicate alla materia nella scuola media e nelle superiori, che invece la lettera aperta ritiene indispensabile ripristinare. Già nel 2017 Mariangela Caprara scrisse sul Mulino: “Questi ordinamenti hanno portato a una vera e propria dealfabetizzazione storica della popolazione scolastica”. La quale, tra l’altro, espone inevitabilmente i giovani a prendere posizioni politiche prive dei necessari presupposti culturali. Come ripete un programma radiofonico che si occupa di politica internazionale, “ognuno ha diritto ad avere le sue opinioni, ma anche il dovere di avercele informate”.

I firmatari del documento chiedono poi di “mettere a disposizione degli insegnanti, in accordo col servizio pubblico radiotelevisivo, un catalogo ragionato dei documentari, dei programmi e dei film di argomento storico utili come sussidi didattici”. Alcuni argomenti in particolare si possono giovare di una notevole scelta di audiovisivi. Penso in particolare alla Shoah e a bellissimi film come Arrivederci ragazzi, Jona che visse nella balena e La lista di Schindler; o all’efficace film La Rivoluzione francese che uscì nel 1989 per il bicentenario di quella svolta storica. Naturalmente film e documentari non devono sostituire la didattica vera e propria; sono anzi utili come complementi se utilizzati dopo che l’argomento è stato sufficientemente compreso e assimilato.

Di particolare rilievo, infine, l’ultima richiesta, quella di “istituire rilevazioni periodiche per verificare le conoscenze storiche degli studenti nei vari ordini di scuola” (si parla di proposito di “conoscenze” invece che di “competenze”). Una caratteristica ricorrente della scuola italiana (e frequente anche nel “sistema Italia”) è l’allergia ai controlli e alle verifiche. Da sette anni, per esempio, si sta sperimentando in alcune scuole superiori la durata quadriennale dei loro corsi, ma sui risultati si sa poco o nulla, a parte il fatto, poco incoraggiante, che numerosi istituti inizialmente aderenti non hanno rinnovato la loro disponibilità.

Meno che mai si indaga sul numero dei docenti non all’altezza dei loro compiti sul piano didattico o su quello della correttezza professionale. Una minoranza, certo, ma che non solo danneggia gli studenti, ma pregiudica anche la credibilità della scuola italiana. E così su tutti gli aspetti dell’istruzione pubblica. Solo la preparazione in matematica e la comprensione del testo in italiano (più qualche domanda di grammatica) sono oggetto delle discusse prove INVALSI, che fortunatamente non hanno dato luogo come si temeva al “teaching to the test”, cioè al riorientamento della didattica in funzione delle risposte ai questionari. Sarebbe del resto poco utile accogliere le proposte della Lettera aperta senza poi verificare se abbiano avuto effetto.

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