Conosciamo a memoria i nodi che rendono poco competitivo il nostro paese. Problemi strutturali, non generati ma aggravati dalle due gravi crisi del 2008 e della pandemia. Una pubblica amministrazione spesso inefficiente, una produttività che non cresce da 20 anni, una classe media che si è impoverita, un tasso di natalità tra i più bassi al mondo e in continua decrescita, un tasso di occupazione basso aggravato dalla scarsa partecipazione al lavoro delle donne e si potrebbe continuare a lungo.



Problemi complessi a cui non si possono dare risposte banali come quelle che troppo spesso usa utilizzare una parte della classe dirigente e politica che vuol parlare alla cosiddetta pancia della gente.

In un paese che deve affrontare le sfide della transizione tecnologia e della sostenibilità ambientale e sociale ci vuole il coraggio di nuove politiche che ridiano slancio al nostro sistema economico, perché la ricchezza bisogna crearla per distribuirla, con buona pace di chi crede che basta “stampare moneta” e fare debito distribuendo risorse a pioggia secondo un modello di assistenzialismo diffuso.



In questo contesto c’è un tema che solo gli sciocchi non riconoscono come decisivo ed è la situazione dei giovani del nostro paese. Il 23,4% dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora, i due terzi dei bambini con genitori senza istruzione superiore restano allo stesso livello e solo il 62,2% delle persone tra i 25 e i 64 anni in Italia ha almeno un titolo di studio di livello secondario a fronte di una media Ue del 78,7%. La quota di popolazione con titolo di studio terziario continua a essere molto bassa: il 19,6% contro il 33,2% dell’Ue. Solo il 41% degli adulti partecipa ad attività di formazione (contro il 52% in Germania e il 51% in Francia); il 47% degli italiani è analfabeta funzionale, cioè è incapace di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle varie circostanze della vita quotidiana.



Se non affrontiamo questo nodo, nessuno degli altri citati potrà essere veramente risolto: bassi livelli di istruzione e formazione e mancanza di professionalità portano a ridotti livelli di produttività del sistema imprenditoriale e dell’apparato amministrativo dello Stato e fanno crescere diseguaglianze e povertà. Siamo su una bomba a orologeria: abbiamo pochi giovani a cui offriamo poche opportunità, non investiamo su di loro. L’Italia non è più un Paese per giovani.

Per aggredire lo stock dei Neet, degli inattivi e di chi rimane spiazzato dalla rivoluzione tecnologica ci vuole un piano straordinario ed è quello che propone Forma (l’associazione italiana a cui aderiscono i principali enti di formazione professionale e realtà quali Acli, Cisl, Confap, Confartigianato, Coldiretti, Confcooperative, Compagnia delle Opere, Mcl).

Un Piano per la competitività e l’occupazione, da attuare con il Recovery Plan, che prevede un investimento in 5 anni di 6,7 miliardi di euro, di cui 4 da destinare alla retribuzione per l’inserimento lavorativo in apprendistato formativo, potenziando l’offerta rivolta ai settori produttivi a maggior tasso di crescita e che porterà al lavoro 330mila persone, in prevalenza giovani.

Un piano credibile perché i soggetti che lo propongono hanno dimostrato negli anni con la IeFP di saper abbattere la dispersione scolastica e con le esperienze di formazione duale e degli Its di saper rispondere alle esigenze del tessuto produttivo.

Lo strumento da utilizzare è quello dell’apprendistato formativo, che opportunamente modificato, può essere la soluzione per rafforzare il sistema educativo e le politiche attive del lavoro e allo stesso tempo per sostenere la ripartenza del sistema economico. Altri Paesi lo hanno già fatto e stanno cogliendo l’opportunità unica del Recovery plan per rafforzare un’infrastruttura formativa adeguata per competere nei prossimi anni.

Il progetto, presentato in audizione alla Conferenza Stato-Regioni del 30 settembre, da chi scrive e dalla presidente di Forma, Paola Vacchina, ha riscosso molto apprezzamento e alcune regioni hanno già dichiarato di ritenerlo un tassello importante da inserire nel Recovery Plan. Allo stesso tempo è iniziato un dialogo con alcuni ministeri competenti per entrare nel merito della valutazione del progetto.

Siamo di fronte a una sfida che chiede a tutti (imprenditori, agenzie educative, politici, intellettuali, singole persone) di mettersi in gioco per non rompere definitivamente quel patto intergenerazionale che non solo è alla base dell’equità sociale, ma che è iscritto in ogni cuore non rattrappito dal cinismo e dal nichilismo.

Dobbiamo stare molto attenti a non diventare una società di sussidiati; una società che pensa a come distribuire la ricchezza senza porsi il problema di come produrla. Difendere il lavoro coincide sempre meno con la difesa tout court dei posti di lavoro; difendere il lavoratore vuol dire sostenerlo con adeguate e nuove politiche formative affiancando ad esse un sistema di tutele flessibili in termini assicurativi e previdenziali.

Il primo e decisivo passo è quello di rafforzare un’infrastruttura formativa che sappia valorizzare le eccellenze presenti in Italia, dando vita a quella rete che è alla base del successo di molti paesi in cui i tassi di disoccupazione giovanile e il mismatch tra domanda e offerta di lavoro sono assai più contenuti. Esempi come il Fraunhofer tedesco nel campo della ricerca potrebbero essere un modello a cui ispirarsi all’interno di quella collaborazione tra soggetti privati e pubblici che è un elemento essenziale e iscritto nel Dna sussidiario della storia del nostro Paese. Una collaborazione che superi le utopie di uno stato autosufficiente evitando di continuare a percorrere strade, che pur partendo da buone intenzioni, si rivelano del tutto inefficaci come quella recente dei navigator.

Rafforzare e innovare l’infrastruttura formativa del Paese è inoltre una condizione necessaria per affrontare le sfide legate ai nuovi modi di lavorare e alla ridefinizione degli stili di vita che sono le sfide implicite dell’evoluzione in atto, sia a livello culturale, sia nella rivisitazione dei modelli economici e di sviluppo.

Le ingenti risorse che arriveranno dall’Europa sono un’occasione unica e forse irripetibile per investire sulla conoscenza e sulle competenze e per procedere a riforme strutturali: è il primo modo per fare debito “buono” e costruire un futuro da protagonisti nell’Europa del lavoro, dello sviluppo e di un nuovo welfare.

BOX – Il piano in sintesi

Il piano proposto prevede 3 azioni mirate, differenziate per platee: per i giovani disoccupati senza titolo secondario superiore (258mila tra i 18 e i 24 anni) è previsto l’accesso in apprendistato formativo all’ultimo anno dei percorsi triennali di IeFP per il conseguimento della qualifica professionale o al quarto per il conseguimento del diploma professionale, in relazione alle competenze possedute; per i giovani Neet (714mila) con diploma di istruzione secondaria si prevede l’accesso a percorsi di apprendistato formativo di terzo livello per il conseguimento di un diploma Its, che consente un più facile accesso al mercato del lavoro; infine per gli adulti privi di titolo (847mila), segmento vulnerabile della popolazione che necessita di interventi volti sia al conseguimento del titolo stesso sia di avvicinamento al mercato del lavoro e alle esigenze del sistema impresa, si prevede di estendere l’accesso ad un anno di contratto in apprendistato formativo.