4. Sul versante dell’education, sia sul piano delle politiche e degli assetti istituzionali, sia su quello dell’esperienza e del vissuto scolastici, i cambiamenti sono stati rilevanti e duraturi. Su questo riflettono variamente tutti i contributi de Il ’68 e l’istruzione, mettendo in luce tre aspetti dell’innovazione.



In primo luogo, l’apertura della scuola e dell’università a forme di partecipazione dei portatori di interesse, fino ad allora esclusi da qualunque sede decisionale o anche solo di discussione. Per restare al caso italiano, l’entrata in vigore dei Decreti Delegati nel 1974 segnò l’inizio di una stagione nella quale le famiglie e, alle superiori, gli stessi studenti entrarono nella scuola, attraverso gli organi collegiali, non più solo come fruitori di un servizio, ma come attori e protagonisti di una comunità educativa. Se ciò produsse qualche frutto in termini di maggiore trasparenza dei processi decisionali e, soprattutto, di apertura all’esterno di un’istituzione molto arroccata nella tutela gelosa dei ruoli e delle gerarchie, è pur vero tuttavia che, a distanza di pochi anni, il fervore iniziale determinato dalla novità (le elezioni, le liste, gli organi…) andò rapidamente scemando, non appena ci si rese conto che una singola istituzione scolastica, terminale passivo di un’organizzazione centralistica come quella di allora (e per ancora molto tempo a venire), non aveva spazi reali di decisione significativa e, meno ancora, di reale innovazione.



Occorre del resto ricordare che il movimento studentesco, in genere ostile alle riforme in quanto ritardavano il “vero” cambiamento (rivoluzionario), anche in questo caso si oppose fieramente ai Decreti Delegati, considerati forse non del tutto a torto come il tentativo di imbrigliare e istituzionalizzare la partecipazione nata dall’esperienza delle assemblee e delle lotte, in forme disciplinate per legge e, quindi, controllabili. Quando poi giunse il tempo dell’autonomia scolastica, addirittura promossa dal nulla precedente al rango di  norma costituzionale, nessuna iniziativa legislativa capace di giungere in porto è stata messa in campo dalla politica per riformare le forme della rappresentanza nella scuola, che sono così rimaste quelle di quasi mezzo secolo fa.



Un secondo aspetto su cui, a buon diritto, convergono diversi contributi è quello del tramonto dell’autoritarismo: il ’68 porta a definitiva deflagrazione un processo emancipativo che, investendo con forza tutti i dispositivi sociali regolati secondo il principio della gerarchia dei ruoli, tocca anche nel profondo l’essenza del “fare scuola”. Sul piano della critica sociopolitica del sistema, il “professore” (ma come dimenticare la “professoressa” destinataria della Lettera di Barbiana?) è denunciato come il garante, attraverso l’esercizio repressivo della selezione, dell’ordine sociale esistente e della riproduzione delle diseguaglianze; ma di là da questo profilo più generale, la critica dell’autoritarismo trova spazio per tempo da un lato nella riflessione pedagogica, dall’altro nella prassi educativa e didattica. Come giustamente rilevano Cavalli e soprattutto Farinelli, l’onda lunga del cambiamento si avverte nelle scuole quando la generazione del’68 vi entra ad insegnare. Il modello invalso per generazioni di una didattica trasmissiva e, per ciò stesso, autoritaria, viene salutarmente discusso, criticato, revocato. Entra in campo, con passione non di rado confusiva ma nondimeno feconda, l’ipotesi di una relazione educativa nuova, fondata tanto su una revisione dei contenuti, quanto su una condivisione dei processi di apprendimento con i destinatari stessi (sui meriti e i limiti del costruttivismo andrebbe peraltro aperta una discussione seria ancora oggi, senza fronteggiamenti di “scuole” o pregiudizi, in un senso e nell’altro).

A questo lascito del ’68, che ha mutato durevolmente, benché non senza riflussi e ripiegamenti, la sostanza delle pratiche didattiche nelle nostre scuole, ne va aggiunto almeno un altro. Non va mai dimenticato che il ’68 arriva in Italia accompagnato da una domanda di istruzione in fortissima crescita, sia per l’incremento demografico, sia per la crescente richiesta del mondo del lavoro. Se gli imprenditori cercano per un verso figure e competenze tecniche più fini e specialistiche, i lavoratori rivendicano dal canto loro il diritto a rientrare in formazione, per migliorare il proprio profilo professionale e culturale.

La conquista delle 150 ore, inserite per la prima volta nel Ccnl dei metalmeccanici nel 1973, solo indirettamente può essere ricondotta al’68. Tuttavia è certo che il clima complessivo di quegli anni, maturato nel vissuto delle persone e dei gruppi che si formarono, soprattutto nelle università, nei tardi Sessanta (si vedano qui gli appunti autobiografici di Campione sull’esperienza pisana), favorì e in parte generò sviluppi importanti  nell’ampliamento dell’esercizio dei diritti, a partire da quello all’istruzione e alla formazione; e più in generale, pur con tutte le contraddizioni che la storia ha poi messo in luce, contribuì senza possibilità di smentita al processo di democratizzazione del paese. E ha messo in luce questioni – si pensi solo al conflitto di genere, al tema dell’ambiente o a quello della pace – che ancora oggi non cessano di interpellarci.

Le risposte e le proposte di quella stagione contestataria furono sicuramente inadeguate; ma avere fatto le domande giuste è un merito che le va riconosciuto. Sta a noi smettere di eluderle.

(3 – fine)