Le linee interpretative che attraversano i contributi de Il ’68 e l’istruzione sono quattro: 1) il movente sociologico del ’68; 2) la cornice storico-geografica del suo dispiegarsi nei diversi paesi; 3) la sua dimensione globale; 4) il suo lascito, in termini di istituzioni e di comportamenti educativi.

1. Un’osservazione ricorrente in pressoché tutti i contributi de riguarda la radice generazionale del ’68, su cui in particolare insiste Alessandro Cavalli. Nati grosso modo negli anni intorno alla fine del conflitto mondiale, i protagonisti dei movimenti che vengono alla ribalta alla fine degli anni Sessanta sono i figli di un Occidente che, pur dentro gli incubi della guerra fredda, conosce una crescita senza pari nella storia. Il ’68 si situa al culmine dei “trenta gloriosi” (1950-1980), i decenni della “società opulenta”, per dirla con Marcuse, nel corso dei quali la distribuzione orizzontale della ricchezza rende diffuso uno standard di vita impensabile per la generazione precedente. La moltiplicazione delle forme attraverso le quali il capitale realizza i propri processi di accumulazione richiede la massima varietà dei comportamenti sociali, affinché l’allocazione del prodotto trovi (e crei) il suo sbocco “naturale” nel consumo. Tutto questo è incompatibile con gli stili di vita e di relazione tradizionali, fondati su schemi fissi di riproduzione sociale, sulla stabilità delle classi e dei ruoli, garantita dal modello educativo gerarchico dell’autorità costituita (le famose “P” di Padre, Padrone, Professore, Prete…). La generazione dei ventenni degli anni Sessanta vive dunque una condizione ambivalente: da una parte il loro status di “consumatori nati” li porta a ricusare i valori ricevuti di sobrietà e morigeratezza; dall’altro, la libertà acquisita e il rifiuto degli stili di vita dominanti li spingono a “contestare” il modello tardocapitalista, che pure li ha generati nel benessere. Stretti tra il conformismo della tradizione e un mercato che li vuole (relativamente) anticonformisti, i giovani del ’68 tentano la via di un’opposizione totale, che comprenda il moralismo e l’ipocrisia dei padri da un lato, la mercificazione immorale e cinica del “sistema” dall’altro.



Ma questo, come intuiva da subito Pasolini, non era possibile. Forse qui sta l’aspetto tragico di quella generazione: nell’impossibilità di definire in modo autonomo, e quindi autentico, i termini della propria libertà. In questo senso, è troppo poco considerare il ’68 come rivolta contro l’autoritarismo, ormai sentito come “intollerabile” (così Luigi Berlinguer, nel suo contributo), se non si aggiunge che quella rivolta era destinata sin dall’inizio a rimanere negli argini del sistema che contestava, a rinnovarli anzi – e a consolidarli. Il ’68 fu l’atto finale, di disperazione mascherata da speranza, di una generazione che da quel momento non ebbe più altra strada che quella di dividersi in mille rivoli, tra individualismi antimoderni  (il “ritorno alla natura”), settarismi ideologici (il “ritorno a Marx e a Lenin”), ripari in Oriente, inferni artificiali e lotta armata. Tutte fughe.



2. È un dato acquisito dalla storiografia che l’annus mirabilis (o horribilis) sia non già una soglia fra un prima e un dopo, ma piuttosto il punto di caduta di un processo di cambiamento cronologicamente più o meno ampio, a seconda che si prenda in considerazione questo o quel fenomeno, sociale o politico, di cui è composto e che si appunti l’attenzione su questo o quel paese. Non vi è dubbio, per esempio, che il contesto dei grandi atenei americani, già dalla fine degli anni Cinquanta, abbia favorito, per reazione agli strascichi paralizzanti del maccartismo, il formarsi di una generazione sempre più consapevole dei propri diritti di voice; e che il ’68 della Columbia non sia che l’evento più avanzato di un movimento che lungo tutto il decennio, tra le lotte per i diritti civili, il Free speech Movement di Berkeley nel 1964 e la contestazione generazionale (The times they are a-changin’ di Bob Dylan è dello stesso anno), aveva fissato le coordinate non di una rebellion, ma di una vera e propria revolution. Tuttavia, l’istantanea di Erich Fromm che dichiara la fine della silent generation sul prato del campus di Columbia segna icasticamente, meno che l’inizio di una rottura, il compimento di un percorso, puntualmente ricostruito nel saggio di Enrico Pugliese.



Di notevole interesse sono le pagine dedicate a Francia e Inghilterra da Donatella Palomba, che restituisce le traiettorie innovative dell’istruzione superiore di quegli anni nei due paesi, dal riformismo laburista incarnato nella Open University al tentativo più radicale e in certo senso visionario dell’Université de Vincennes, prodotto diretto del Maggio, che costituirà un esperimento, vitale quanto isolato, di learning community alternativa. Sul caso del Regno Unito si sofferma Luca Salmieri. Se è vero che la “swinging London” degli anni Sessanta è la capitale della rivoluzione dei costumi giovanili (con tutte le ambivalenze di cui si è fatto cenno sopra), il Sessantotto londinese sembra far propria soltanto la dimensione internazionale della protesta contro l’imperialismo e la guerra del Vietnam, lasciando molto a margine le questioni specifiche della scuola e dell’università, rispetto alle quali il Regno Unito da tempo poteva vantare una riflessione politico-pedagogica che “molto prima del ‘68” aveva imboccato la via della critica e della riforma di un sistema educativo marcatamente classista, grazie a movimenti come la New Left o a personalità come quelle di Raymond Williams e Richard Hoggart.

3. A ragione Alessandro Cavalli osserva che quello del ’68 non è stato un movimento internazionalista, nel senso primonovecentesco del termine (casomai cosmopolita, per certi versi), ma certamente è stato un movimento “globale”. E ciò non soltanto per la latitudine della sua estensione geografica (da Los Angeles a Tokyo, passando per l’Atlantico), ma per i temi unitivi, i miti condivisi, gli avversari comuni. La denuncia dell’imperialismo americano, l’opposizione alla guerra in Vietnam, il sostegno ai movimenti di liberazione e il terzomondismo, le lotte per i diritti civili, la critica del capitalismo e dei suoi simboli, la demistificazione dell’autorità; e insieme la costruzione di miti ed eroi, Giap, Ho Chi Minh, Mao – e su tutti il “Che”. Non sono sicuro invece che il ’68 si possa interpretare come una ribellione univocamente prospettica, ossia rivolta ad un futuro da costruire e non – come spesso accade nei moti di popolo – ad un presente da proteggere o ad un passato da restaurare. È probabile che sia stata soggettivamente vissuta così, ma restano troppe le parole d’ordine, le simbologie  e le posture esistenziali antimoderne, per non indurre a ripensare quegli eventi anche come una grande insorgenza di utopia regressiva. Anche, dicevo, perché poi l’incidenza del ’68, non tanto in termini direttamente politici (nessun paese ha cambiato non dico ordinamento, ma neppure prassi istituzionale a causa del ’68), quanto sullo sviluppo dei costumi e dei comportamenti sociali nei decenni successivi rimane innegabile.

(2 – continua)