Dal sito dell’Agenzia CULT ricavo che Vittorio Sgarbi avrebbe depositato un disegno di legge per la creazione di un nuovo dicastero dedicato alla bellezza.
L’idea di un ministero della bellezza mi trova tutt’altro che dissenziente e soprattutto non posso non concordare con le motivazioni del suo ideatore: «“L’Italia ha una civiltà intrisa di gloria e bellezza e ‘plasmata’ nei secoli dal costante dialogo con un paesaggio straordinario e unico al mondo, in una felice interazione che ha favorito la nascita del patrimonio artistico, architettonico, storico, culturale, monumentale, intellettuale senza ombra di smentita più vasto e rilevante al mondo”. Sebbene “il valore di tale patrimonio sia assolutamente inestimabile, qualche anno fa uno studio condotto sui dati di bilancio del Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato lo stimava in almeno 986 miliardi di euro, tra attività finanziarie e non finanziarie”. E “la così detta ‘economia della bellezza’, cioè la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, architettonico, enogastronomico, di tradizioni, di identità, è in grado di generare un impatto sul Pil nazionale pari al 17,2 per cento”».
Nel 1997 il primo ministro inglese Tony Blair avviò la Creative Industries Task Force all’interno del Department for Culture, Media and Sport. Il concetto di industrie creative era stato creato qualche anno prima in Australia, ma fu in Inghilterra che ricevette una sua istituzionalizzazione.
Noi italiani, invece, ci siamo distinti negli stessi anni e in quelli a seguire per dibattiti interni al potere politico relativi al fatto che con la cultura non si mangia. In un Paese povero di materie prime come il nostro, ma ricco di tradizioni, vale a dire di storia, l’economia della cultura o, come altrettanto genericamente potrebbe essere definita, della bellezza effettivamente potrebbe essere vista come uno dei momenti trainanti della vita economica della nazione.
Se le cose stanno così, allora occorrerebbe capire quale tipologia di istituzioni formative possano contribuire alla creazione di una classe dirigente in grado di compiere operazioni di incentivazione e valorizzazione nel settore della bellezza o della creatività. Delle istituzioni in tal senso ci sono, anche se andrebbero certamente riformate e potenziate, ma uno zoccolo duro su cui agire certamente ci sarebbe già.
Mi riferisco alle istituzioni dell’Alta Formazione Artistica e Musicale, che comprendono al loro interno le Accademie d’Arte, i Conservatori musicali, ma anche gli Isia, le famose e gloriose istituzioni per le industrie artistiche, e le romane Accademia di Danza e di Arte drammatica.
Andrebbe certamente avviato un processo di valutazione, potenziando quello già esistente all’interno delle istituzioni (i nuclei di valutazione) e affidando all’Agenzia di Valutazione del Sistema universitario e della Ricerca finalmente e definitivamente l’onere della valutazione delle singole istituzioni. Questo consentirebbe pure di farle definitivamente prendere congedo da quella logica secondarizzante che per decenni è stata come una pesantissima e mortificante zavorra per l’intero settore.
Come per ogni seria istituzione di livello terziario, finalmente è arrivato il momento di una valutazione delle strutture, dei servizi erogati e del personale nella sua totalità.
Da poco, oltretutto, è stato anche ricostituito il CNAM, il Consiglio Nazionale per le Arti e la Musica, che istituzionalmente le rappresenta, che ha eletto un presidente dinamico, Antonio Bisaccia, direttore dell’Accademia d’arte di Sassari. Non solo: in dicembre è stato licenziato un decreto ministeriale con il quale è stata stabilita la possibilità del varo di dottorati di ricerca in ambito AFAM – e a maggior ragione, con il varo imminente dei dottorati, il momento della valutazione a cui facevo accenno sopra diventa oltremodo necessario.
Quindi, direi che ci sono tutti i presupposti affinché si possa ripensare e riparlare di un rilancio per la formazione di quadri dirigenziali e di figure professionali a tutti i livelli per il settore delle imprese culturali e creative, uscendo finalmente da quell’ambito di sostanziale improvvisazione, che ha caratterizzato da sempre la gestione di questo settore nel nostro Paese.
Magari la bellezza non salverà il mondo, ma di sicuro potrebbe contribuire a creare ricchezza e benessere (la cosiddetta vita bella) all’interno di una nazione famosa in tutto il pianeta per il suo patrimonio culturale e per la sua creatività.
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