L’accordo tra governo e sindacati della scuola, che ha portato alla sospensione dello sciopero del 17 maggio, è senza dubbio una buona notizia. Si tratta tuttavia di una tregua e non della pace, forse neanche di un armistizio.
Restano innanzitutto da definire i contorni degli impegni assunti in prima persona dal presidente Conte, che ha parlato di assicurare ai docenti “un congruo aumento degli stipendi”: c’è da chiarire il significato di quel termine, “congruo”, e quantificare le risorse che dovranno essere individuate già nella prossima legge di bilancio per avvicinare, almeno in parte, le retribuzioni degli insegnanti italiani a quelle dei colleghi europei e garantire il recupero del potere d’acquisto perso negli ultimi anni. Tutti i governi degli ultimi dieci o quindici anni, d’altro canto, si sono concessi promesse simili: salvo poi disattenderle alla prova dei fatti. L’auspicio è che l’attuale esecutivo sappia passare dalle parole ai fatti.
In seconda battuta, i sindacati avrebbero ottenuto rassicurazioni circa l’unitarietà del sistema nazionale d’istruzione. Qui l’impressione è che ci sia mossi, consapevolmente, negli spazi concessi dall’ambiguità di alcune espressioni. Per il governo si è trattato, probabilmente, di affermare l’ovvio: il sistema nazionale d’istruzione non può che essere unitario, perché la definizione delle norme generali è costituzionalmente assegnata allo Stato. Per i sindacati è stata l’occasione di veder riconosciuta la propria opposizione all’autonomia differenziata – in fase d’avvio in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – riaffermando l’unitarietà di stato giuridico del personale, il valore nazionale dei contratti e del sistema di reclutamento e gestione dei docenti. Temi sui quali, è evidente, si dovrà aprire un confronto ampio se si vuol fare dell’autonomia differenziata un’occasione di crescita e sviluppo per le scuole delle Regioni interessate.
L’ultimo e più sostanzioso punto dell’accordo, quello che più probabilmente troverà uno sbocco concreto nei prossimi mesi, riguarda la stabilizzazione dei docenti precari. Per i supplenti con almeno 36 mesi di servizio si è parlato di un concorso riservato senza prova selettiva e di altri e non meglio definiti percorsi abilitanti finalizzati all’immissione in ruolo.
E su questo ci sia consentito esprimere una preoccupazione, dal punto di vista del tecnico che di frequente è chiamato anche a verificare la competenza professionale di docenti che devono essere confermati in ruolo o che, in alcuni casi, sono già titolari di contratti a tempo indeterminato ma rivelano alla prova dei fatti gravi carenze.
Soprattutto nelle regioni del Nord e in alcune classi di concorso, ci troviamo di fronte a una significativa mancanza di docenti abilitati. In occasione delle immissioni in ruolo dell’estate 2018 sono rimaste scoperte 32mila cattedre, perché non vi erano candidati con i titoli necessari per accedere all’assunzione a tempo indeterminato. È quanto accade, solo per fare un esempio, con gli insegnanti di scuola primaria, con i docenti di sostegno o con alcune delle classi di concorso più numerose quali ad esempio quelle di matematica o di lettere alla scuola secondaria di primo grado.
Molte di queste cattedre vacanti sono attualmente coperte da supplenti che non hanno l’abilitazione all’insegnamento o, nel caso della scuola primaria, che devono ancora conseguire la laurea in scienze della formazione primaria. È una soluzione di ripiego: dato che le classi vanno comunque coperte, accettiamo il rischio di mettere in cattedra supplenti che, non avendo completato (o non avendo mai intrapreso) il proprio percorso di formazione come docenti, potrebbero non presentare quelle qualità – culturali e professionali – che dovrebbero caratterizzare ogni insegnante. La scarsa disponibilità di aspiranti docenti, in sostanza, ci sta portando ad abbassare l’asticella e, in diversi frangenti, affidare classi a persone che non offrono le necessarie garanzie.
Fin qui, la necessità. Su cui pure occorre interrogarsi. Se abbiamo meno insegnanti di quelli che ci servono è perché abbiamo reso questa professione sempre meno attrattiva. Per troppo tempo ci siamo adagiati sulla retorica dell’insegnamento come vocazione, che va splendidamente a braccetto con l’idea che si possa insegnare restando sottopagati, senza avere prospettive di carriera, senza vedere riconosciuto il merito in termini di retribuzione. Dire che l’insegnamento è una vocazione, in fondo, è un modo per giustificare quanto non sarebbe giustificabile in altri ambiti professionali: orari opachi e diseguali (ci sono docenti che lavorano giusto il tempo delle lezioni e delle riunioni, altri che “per vocazione” anche il sabato e la domenica preparano lezioni, correggono verifiche, si aggiornano); trattamento indifferenziato dei migliori e dei peggiori; scarsa o nulla propensione alla verifica degli standard professionali, cosicché accedono al sospirato contratto a tempo indeterminato, accanto a persone di grande capacità e competenza, anche molti (sì, molti, lasciamo da parte l’ipocrisia) che hanno limitata cultura, poca voglia di lavorare, scarsa comprensione del ruolo.
Basti a dimostrare quanto si sia abbassata l’asticella il caso, arcinoto, delle antiche diplomate magistrali che – senza alcun obbligo di formarsi, aggiornarsi, verificarsi – si sono reinventate maestre dopo decenni (letteralmente) trascorsi a fare altro. Con il risultato di ritrovarsi a insegnare a cinquanta o sessant’anni senza mai averlo fatto prima, avendo ricordi vaghi di quanto appreso all’istituto magistrale in età adolescenziale: perché c’era posto, perché era un’occasione di impiego stabile e vista come non troppo impegnativa, perché magari i figli erano cresciuti e c’era più tempo libero. Affidereste la vostra salute a un sessantenne che, oltre tre decenni fa, si è laureato in medicina ma ha poi fatto per tutta la vita l’impiegato? Salireste sull’automobile guidata da una persona dotata sì di patente, ma una patente conseguita venticinque anni fa e poi messa nel cassetto? La risposta in entrambi i casi è, certamente, no. E allora ci si dovrebbe domandare perché, in Italia, sia in fondo normale affidare l’istruzione di bambini di sei o sette anni a insegnanti “patentati” venticinque anni fa che mai si erano cimentati nel delicato mestiere del maestro.
Il problema ora è non fare di necessità virtù. Ovvero: il fatto di aver bisogno di mettere in cattedra come supplenti persone non qualificate, non può portarci ad attivare l’ennesimo meccanismo sanatoriale attraverso il quale, dopo aver insegnato per un determinato periodo, si acquisisce automaticamente il diritto a un contratto a tempo indeterminato senza che, nella sostanza, nessuno abbia mai verificato il possesso di competenze professionali imprescindibili. Questo, occorre dirlo senza infingimenti, è quanto prefigura l’accordo governo-sindacati: l’immissione in ruolo indiscriminata di docenti la cui competenza professionale, nei fatti, non verrà mai verificata.
Se si vuol fare il bene delle scuole italiane, non ci sono scorciatoie da imboccare. Si lavori per restituire prestigio alla professione di insegnante: trovando davvero le risorse per stipendi congrui; chiarendo una volta per tutte che l’orario di lavoro deve andare per tutti ben oltre le ore di classe e le riunioni, per includere il tempo della preparazione delle lezioni e dell’aggiornamento professionale; dotandosi di strumenti per distinguere il grano dal loglio, vincolando a formarsi quanti hanno lacune professionali e mettendo fuori dalle scuole quanti non hanno i minimi per lavorarvi. La scuola non può continuare a essere la più grande agenzia di collocamento del Paese: pena l’abbattimento degli esiti di apprendimento dei nostri studenti (già non particolarmente brillanti) e l’incancrenirsi della crisi etica e culturale che già, da più parti, ci assedia.