Un fantasma, sopravvissuto al carnevale macabro consumistico di Halloween, si aggira nelle aule delle scuole italiane in questo mese dei morti dell’anno 2024: è il fantasma delle manifestazioni studentesche che si incarnava in occupazioni o autogestioni. Sono passati, tramontati, i tempi in cui le ideologie soffiavano sulle braci della massa giovanile che aspettava solo la miccia giusta per aggiungere alle vacanze stabilite per legge almeno una settimana in più di sospensione delle lezioni, con la connivenza di buona parte del corpo docente.



L’ultima volta ci si era entusiasmati col verbo gretino, quello green. Il fantasma si era colorato di verde, mentre cresceva l’ansia per la fine apocalittica del pianeta. Contemporaneamente, come dopo un diluvio universale, ecco spuntare l’arcobaleno per riaccendere un po’ i cuori alla protesta. Troppo poco, e nemmeno condiviso da tutti, per una mobilitazione scolastica con tanto di occupazioni e/o autogestioni. Il lockdown del Covid ha fatto il resto, spegnendo ogni anelito e rinchiudendo ancor di più, se possibile, cuori e abitudini nel cerchio chiuso del web: solo se per legge le venissero definitivamente negati i cellulari, la “generazione Z”, in una crisi d’astinenza, scenderebbe forse in piazza a farsi sentire o metterebbe in atto manifestazioni anche violente.



L’altra evidenza è che non arrivano più (almeno al momento in cui scrivo) input dall’alto, cioè da sindacati e partiti: chi ha guardato con intelligenza ed obiettività quello che gli accadeva intorno vedeva benissimo come queste manifestazioni di fine anno solare fossero eterodirette: lo si leggeva nella loro piattaforma di rivendicazioni, dove entrava di tutto un po’ e solo marginalmente, anzi, pretestuosamente, genericamente, qualcosa che riguardava davvero la scuola. La mobilitazione politica calava improvvisamente dall’alto (spesso trainata dai sindacati) sulle teste degli studenti. Bastava sbandierare la possibilità di un giorno di vacanza o addirittura una settimana di allegro far niente perché i cuori si surriscaldassero e si ritirassero fuori dalla soffitta, in cui erano andati miseramente a finire, i vecchi simboli e la vecchissima retorica che risalivano al mitico Sessantotto. Intanto gli studenti venivano usati e si lasciavano usare, ricattati, corrotti e venduti al panem et circenses, mentre le tv rispolveravano anche loro titoli vecchi, ma di sicuro effetto, tipo “monta la protesta studentesca”, facendo finta di crederci.



Erano tutte menzogne, fake news. Nessuna protesta reale (se si eccettua qualche corteo cui partecipava comunque una minoranza), quanto un’allegra baldoria che nasceva da una sorta di passaparola, un gasamento collettivo: il “Garibaldi” occupa; il “Mazzini” pure; il “Cavour” è in autogestione. E quelli del “Cattaneo” di certo non volevano essere da meno, ne andava della dignità, dell’immagine di fronte a tutta la collettività giovanile. Tutti sulle barricate! La baldoria si spegneva presto e finiva dopo una settimana di scorpacciata. Il rovesciamento carnevalesco ha sempre avuto tempi limitati e ben definiti. Poi ricominciava la solita routine, come se niente fosse stato. Come quando, per l’effetto-elastico, trovate una fila interminabile in autostrada che poi magicamente si dissolve e vi chiedete perché e come mai sia iniziata.

Nessun rimpianto, dunque, per questo fantasma triste e dimenticato che non riesce a vivere. Nessuno, davvero, perché era deprimente ogni volta, almeno per il sottoscritto, vedere questa farsa di giovani che portavano il cervello all’ammasso, barattandolo per qualche giorno di vacanza in più.

E però non si può essere soddisfatti neanche della situazione attuale: i ragazzi di quegli anni erano allegramente ribaldi e avevano almeno voglia di stare insieme. Le occupazioni e le autogestioni erano un segno di vitalità e anche un modo, per quanto confusionario, improvvisato e inconsapevole, di stare a scuola in modo diverso, di sentirsi comunità. Zero coscienza non solo della piattaforma politica, ma anche di quello che si stava facendo e di quanto si fosse strumentalizzati, ma in compenso la cialtronesca gioia di stare a scuola senza fare scuola.

E oggi? Occhi spenti di gabbiani senza nemmeno più il desiderio del volo, mentre di una seria protesta ci sarebbe bisogno, una protesta non eterodiretta, calata dall’alto, generica, che mescola di tutto di più per poi lasciare tutto com’è. Perché nel frattempo la vita dello studente medio si è fatta sempre più grigia e impossibile: bisogna rincorrere i crediti esterni ed interni;  poi sottoporsi al pesantissimo monte ore di PCTO; poi le ore di educazione civica, con annessi lavori addizionali che la creatività degli zelanti del nuovo gli impone; poi ci sono trenta ore di orientamento, che quando va male si trasformano in ulteriore tempo scuola dedicato alla fuffa. Infine arrivano i corsi della transizione digitale. Perché con i fondi del PNRR si sono fatti i laboratori, ma ora bisogna “fare chi li usa” e quindi ecco altre ore di corso, altri impegni, altra “carne da corsi” da individuare ed immettere alla frequenza obbligatoria degli stessi. In più, fanalino di coda, c’è anche lo studio, ma la contrazione dell’orario in cinque giorni col sabato libero, sponsorizzata da dirigenti scolastici, docenti, personale non docente e società intera, ha aumentato il carico di lavoro quotidiano in modo impressionante.

Ogni novità introdotta viene semplicemente imposta: del parere degli studenti, delle loro esigenze non interessa niente a nessuno, nessuno li consulta. Servirebbe la voce forte di qualche ragazzo che dicesse: “Alt! Ci state rubando la scuola! Ci state rubando la vita!”. Ma questo presupporrebbe una qualità e una disponibilità all’impegno, una serietà davanti a quello che si vive, una capacità di solidarietà e di apertura agli altri, che in fondo non servono alla generazione Z, al suo sopravvivere e tirare avanti.

Insomma, è molto probabile che non assisteremo, e per fortuna, al ritorno del vecchio fantasma, ma purtroppo non assisteremo nemmeno alla nascita di qualcosa di nuovo. Non se ne vedono le avvisaglie. E di questo non c’è da rallegrarsi.

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