Si scrive LIM (Lavagna Interattiva Multimediale), si legge SIM (Spreco Interattivo Multimediale). Dopo la farsa dei banchi con le rotelle (non si conosce la cifra ufficiale di quanto siano costati, si parla di 4 milioni di euro) che per lo più giacciono inutilizzati o sottoutilizzati o utilizzati male in migliaia di scuole perché inadeguati alle necessità, sarà la volta delle lavagne interattive a finire presto negli scantinati. Introdotte in via sperimentale una decina di anni fa e poi largamente diffuse su tutto il territorio nazionale negli istituti di ogni ordine e grado (con un costo a carico del cittadino-contribuente che, in questo caso, non è noto), il ministero dell’Istruzione ha pensato che le LIM non siano già più adeguate ai tempi tecnologici che corrono, anzi galoppano.
Con il Piano Operativo Nazionale “Per la scuola. Competenze e ambienti per l’apprendimento” finanziato dalla Comunità europea (3 miliardi di euro, di cui 800 milioni “per laboratori, attrezzature digitali e interventi di edilizia”) varato nel 2014 e di durata settennale, stanno arrivando nei singoli istituti i contributi necessari a rottamare le “vecchie” lavagne per sostituirle con “monitor touch”, dispositivi elettronici che, unendo schermo e digitalizzatore, consentono ad alunno e insegnante di interagire con lo schermo usando semplicemente le dita.
Si dirà che non si tratta di una novità assoluta e che strumenti di questo genere circolano da tempo dentro e fuori le aule scolastiche; che se il resto della società corre o, appunto, galoppa alla velocità della luce, il sistema dell’istruzione non può permettersi di rimanere indietro; che se l’innovazione tecnologica rende obsoleto oggi ciò che era nuovo solo ieri (basti vedere il continuo rinnovamento dei telefoni cellulari) non è colpa del ministero e così via.
Tutto vero, certo, non fosse che nell’opinione pubblica si tende a scambiare il rinnovamento delle apparecchiature (che pure occorre, quando occorre) con l’illusione di una scuola tout court migliore e le tasche dei cittadini (perché di questo si tratta) con il pozzo senza fondo di San Patrizio. Anche in questa circostanza, come quando le lavagne di ardesia (interattività pari a zero, ma almeno non si rompevano mai e non avevano costi significativi di manutenzione) o sintetiche (pessime perché il gesso faticava a lasciare il segno o perché funzionavano solo col pennarello, perennemente scarico ed enormemente più costoso del gesso) furono sostituite con le LIM, gran parte del mondo docente sarà pronto a gridare l’alleluja, nella convinzione che gli studenti saranno invogliati ad imparare meglio e persino di più.
Mica vero: l’esperienza forse non dice il contrario, ma nemmeno assicura che avremo migliori apprendimenti. Non c’è indagine a qualsiasi livello che neghi l’evidenza di una scuola in continuo, rapido declino proprio, com’è il caso recentissimo della Fondazione Agnelli e della sua fotografia della scuola media inferiore a dieci anni di distanza da quella precedente. “Da tempo fatica a svolgere i suoi compiti perché gli apprendimenti non sono soddisfacenti e i divari sociali, territoriali e di genere si accentuano. Queste tendenze erano già presenti dieci anni fa e questo nuovo rapporto mostra che ad oggi le cose non sono sostanzialmente cambiate”.
Coincidenza: il peggioramento è avvenuto in concomitanza con la diffusione delle costosissime LIM, magari anche utili ma inadeguate a risolvere il problema di fondo di una scuola senza più identità, che sforna studenti impreparati e incapace di attirare professionalità adeguate. Si passi il paragone: non è cambiando scarpe che i piedi fanno necessariamente meno male.
A inizio ottobre il ministro Bianchi ha annunciato l’arrivo dei primi finanziamenti del Recovery plan: 3 miliardi per asili e infanzia, 800 milioni per nuove strutture, 500 per ristrutturare quelle vecchie, 400 per le mense, 300 per le palestre. Ben vengano a fronte di edifici per la gran parte costruiti oltre cinquant’anni fa o addirittura tra fine Ottocento e inizio Novecento e bisognosi di continui interventi. Peccato che a tutto questo venga spesso associata l’idea – parole magiche che sentiamo ripetere da tempo come un mantra – di una “didattica innovativa, inclusiva, coinvolgente”, come se il rinnovamento tecnologico fosse la panacea di tutti i mali di cui soffre il sistema scolastico italiano.
Facciamocene una ragione: non è stato e non sarà così nemmeno questa volta. Scuola tecnologica non significa di per sé scuola che funziona. Per quello servono preparazione didattica e culturale solida, disposizione alla fatica (non solo al piacere, che di norma si aggiunge col tempo) dell’apprendere, capacità di guardare l’altro con umanità. Valori aggiunti che la tecnologia non conoscerà mai.
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