Quello che non poté fare la politica ordinaria lo farà l’emergenza. Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto sull’esame di maturità 2019/2020 che di fatto, udite udite, sull’onda dei cambiamenti delle abitudini e delle leggi prodotti dal rischio del contagio abolisce il valore legale del diploma in uscita dalla scuola secondaria superiore.



Il testo del provvedimento non dice questo, ovviamente, e non dice solo questo, dato che la sua gittata si prolunga fino all’inizio del prossimo anno scolastico. Ma tra le righe dice anche questo. Prevede, infatti, nel caso molto probabile che le scuole non riaprano prima del 18 maggio, la deroga agli articoli 17 e 18 del decreto legislativo 62/2017 con il quale si disciplinavano gli esami conclusivi dello scorso anno scolastico. Si prescriveva che l’esame di Stato dovesse comprendere due prove “a carattere nazionale” (la tanto discussa prima prova riveduta e corretta e la seconda di indirizzo). Era ben precisato che spettasse al ministero scegliere i testi delle due prove “per tutti i percorsi di studio tra le proposte elaborate da una commissione di esperti”.



Seguiva poi, una volta abolita la terza prova, il fatidico colloquio “funzionale all’accertamento del profilo culturale, educativo e professionale del candidato”, con l’argomento sorteggiato fra tre proposti dalla commissione mista (tre interni, tre esterni più il presidente), secondo una procedura che il precedente inquilino di Viale Trastevere, ministro Fioramonti, aveva preannunciato di voler modificare. E soprattutto la valutazione doveva attenersi ad un sistema di griglie utili (o inutili, a seconda delle interpretazioni) a uniformare i punteggi finali ad una scala nazionale.

Ora tutto questo nella proposta del ministro Azzolina non sussisterebbe più. Tutto questo, e non solo, sostituito (nell’alternativa B, è il caso di ribadirlo: scuole chiuse fino a giugno), da un non ben precisato “unico colloquio” in modalità telematica. Ammissione e valutazione a cura del consiglio di classe, insomma, compresa l’annosa questione del credito scolastico corrispondente fino a un quarto del voto finale in centesimi e ora, nell’emergenza, dilatato oltre misura fino a comprendere “l’impegno di tutto l’anno”.



Si tratterà di un tipo di prova che non potrebbe essere più lontana dal modello di esame di Stato su cui si è costruito il mito della scuola statale e niente di più vicino ai sostenitori dell’inutilità dell’impagabile pezzo di carta. Sì, il famoso diploma che conferisce validità giuridica su tutto il territorio della nazione a conoscenze e competenze che in conformità a un titolo formale dovrebbero essere riconosciute da qualunque ente esterno (università o datore di lavoro) e che invece riconoscibili non sono. Le scuole autonome in Italia da tempo lavorano attenendosi non a programmi, ma a semplici indicazioni nazionali. Ogni scuola vanta ormai i propri indirizzi e in alcuni casi il proprio corpo docente. Dietro il paravento delle griglie e valutazioni nazionali si nascondono realtà diversissime. Non solo perché esistono scuole più avanzate e scuole meno (lo si è visto con la didattica a distanza), ma soprattutto perché molti istituti, tranne i licei, forse, sono orientati a sintonizzarsi con il territorio e le sue specificità.

In sintesi, non è la frequenza della scuola in generale che fa il buon alunno, ma di quella particolare realtà scolastica, riconoscibile dalla sua tradizione, dai livelli di qualità che dimostra e dalla capacità di fare rete. Dalla sua soggettività, in poche parole. In un sistema scolastico costituito da una molteplicità di soggetti, statali e non statali come il nostro, il valore del titolo ha la stessa consistenza della scuola che lo conferisce, dei contenuti della didattica e dei rapporti educativi che vi sono coltivati, non dall’astrattezza di un velo normativo caduco.

In conclusione, in modo probabilmente inconsapevole, data l’inesperienza e la giovane età, la ministra ha infranto un tabù. Quel sacro principio dell’uniformità della cultura e del diritto di accesso all’unico sapere che, se valido in passato, oggi è smentito dai fatti. È ormai evidente, e lo sarà sempre di più in un Paese che dovrà ricostruirsi, che la garanzia dei diritti di accesso all’istruzione non deve e non può coincidere con la genericità dell’offerta formativa, da differenziare in relazione alle esigenze degli individui. Che farsene del valore legale del titolo di studio, quando dovranno essere sempre di più valutate (e premiate) le scuole e sempre di valutati (e premiati) gli insegnanti?

Sappiamo bene che sul tema è in atto da tempo uno scontro tra una “destra” liberista e abolizionista e una “sinistra” egualitaria e garantista. Ma ai 5 Stelle che non sono né di qua, né di là (forse né carne, né pesce) che gliene importa? Nel loro programma l’abolizione del valore legale dei titoli è presente, eccome. Quale migliore occasione per introdurre, sperimentalmente e posti tutti i distinguo, una prima mattonella?

Se ne discuta, allora, e pacatamente, perché dopo l’emergenza la pezza potrebbe dare corpo a un nuovo edificio.

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