Il 23 gennaio scorso il Gup del Tribunale per i minorenni di Catania ha condannato a 16 anni un quattordicenne accusato di avere ucciso la mamma. Il minore, figlio di un pregiudicato in carcere, avrebbe compiuto l’efferato delitto per punire la madre che voleva allontanarlo dal padre e dai suoi insegnamenti e legami.



Adesso Carmelo (nome di fantasia) si ritrova con una dura condanna sulle spalle. E la sua storia squarcia l’indifferenza con cui l’opinione pubblica e la politica hanno trattato in questi anni il tema della criminalità minorile al Sud. Tema che, invece, nelle relazioni di apertura dell’anno giudiziario 2023, i presidenti delle Corti d’appello meridionali continuano a individuare come cruciale per garantire la sicurezza e lo sviluppo dei territori.



Il caso del minorenne che uccide la giovane mamma nello storico quartiere di San Cristoforo a Catania ci aiuta a inquadrare meglio un problema che resta, soprattutto al Sud, di grandi dimensioni.

Anzitutto ci riporta a contesti di povertà culturale ed economica in cui la donna è ridotta al ruolo di moglie-mantenuta, che deve sottostare ai voleri del marito e non ha autonomia nell’educazione dei figli, soprattutto se maschi. La mamma-vittima catanese non a caso è stata punita con la morte. La sua colpa: essersi sottratta alla dipendenza del marito-carcerato e aver voluto decidere un percorso educativo per il figlio alternativo a quello voluto dai familiari del coniuge. È in questo contesto che si è consumata la tragedia. Carmelo, quasi eseguendo un ordine o spinto da un destino già segnato, ha accoltellato a morte la madre.



Tornano in mente le parole di un boss della mafia catanese condannato all’ergastolo nello storico maxi-processo di Torino alla fine del Novecento. In una lettera a Elvio Fassone, il magistrato che presiedeva il maxiprocesso e con cui l’ergastolano ha intrattenuto un lungo epistolario, il boss scrive: “Che vuole che ci aspetti a chi nasce nel Bronx di Catania [sta parlando proprio del quartiere di San Cristoforo, ndr]? O la tomba o la galera”. Come fosse un destino già segnato. Un destino che prevede un percorso che il nostro Carmelo sembra aver seguito nei suoi tratti principali. Il primo di questi – guarda caso – è l’abbandono della scuola, la dispersione scolastica.

La scuola è concepita in quel contesto come inutile, una perdita di tempo rispetto ad altre proposte che garantiscono un guadagno facile. Dal canto suo, essa si mostra spesso a questi ragazzi come una realtà respingente. Non è raro, infatti, che essa si ritrovi a espellere i casi difficili. Ecco perché, come suggeriscono a Catania sia il presidente del Tribunale per i minorenni Roberto Di Bella sia l’arcivescovo Luigi Renna, intervenire sul tema dell’educazione e della formazione dei minori è la questione cruciale: significa influire in maniera stabile sulle persone e sullo sviluppo sociale, economico e civile dei territori.

Se vogliamo evitare in futuro altri casi come quello di Carmelo, o che decine di migliaia di minori siciliani in povertà educativa continuino ad essere offerti su un piatto d’argento alla criminalità organizzata non ci resta che una via. Quella stessa suggerita dall’ergastolano catanese a riguardo dei suoi quattro nipotini in un’altra lettera al giudice Fassone: “[Ai miei nipoti] gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro, altrimenti finiscono dove sono finito io”.

Possibile che questa elementare verità ce la debba ricordare un boss all’ergastolo?

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