Il futuro dell’Invalsi sarà uno dei banchi di prova fondamentali della dichiarata volontà di discontinuità rispetto alla politica di non-cambiamento della scuola del precedente governo giallo-verde. Il 24 luglio ho partecipato all’audizione della Camera relativa all’esame delle due distinte risoluzioni della VII Commissione, presentate dai deputati Aprea per Forza Italia e Toccafondi per il Pd, di fatto convergenti nella richiesta di evitare “che l’istituto venga depotenziato o ridimensionato o ne vengano stravolte la mission e le funzioni attraverso accorpamenti, fusioni o riduzioni a ufficio dello Stato, che ne pregiudicherebbero la specificità e la terzietà dell’azione” (risoluzione Aprea).



Ciò a fronte dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri nel dicembre 2018 di un disegno di legge (non giunto comunque in Parlamento) che prevederebbe appunto la suddetta “razionalizzazione”, approvazione che ha fatto seguito alla trasformazione del budget per le rilevazioni nazionali in finanziamento temporaneo per il solo quadriennio 2016-19.



Il panorama degli interventi a favore di questa scelta mi è sembrato, sarò partigiano, assai debole e un po’ tendenzioso: altisonanti e fumosi richiami alle nuove teorie pedagogiche e al fatto che la valutazione è cosa seria, con alto valore formativo della persona, da non confondere con le meschine questioni di misurazione e con la logica massificante dei livelli standardizzati. L’argomentazione clou – per altro sostenuta pubblicamente anche da un autorevole presidente di una associazione nazionale dei dirigenti scolastici, in un’intervista rilasciata all’indomani della notizia del perfetto rapporto inverso tra risultati Invalsi e risultati degli esami di Stato – è stata quella della non sovrapponibilità e comparabilità delle valutazioni scolastiche con i punteggi delle rilevazioni standardizzate nazionali e internazionali. Che c’entrano mai le due cose tra di loro? Perché accostarle? I piani sono e devono rimanere assolutamente distinti. Le valutazioni scolastiche, infatti, riguardano il processo formativo degli alunni; aspetto da non confondere e da non ancorare a livelli standard definiti in modo assoluto, cioè slegati, avulsi dalle decisioni assunte nell’ambito della didattica. Cosa che potrebbe tra l’altro configurare anche una sorta di reato, quello appunto di lesa maestà dell’autonomia didattica e valutativa, operata attraverso un’indebita intromissione nella repubblica indipendente dei collegi docenti e dei consigli di classe. Anzi, dei singoli docenti. Se proprio si vuole un qualche ritorno di posizionamento standard, naturalmente a mo’ di indicazione generale sullo stato complessivo del sistema, non è già disponibile una rilevazione internazionale come quella triennale – periodica, ma non troppo ravvicinata – di Ocse-Pisa? Che farcene dunque del doppione di Invalsi?



Perché, viene da chiedersi, questa allergia alle misurazioni standardizzate? Le ragioni penso siano fondamentalmente due.

La prima: quella di Invalsi non è una rilevazione una tantum e general-generica, giacché il suo dispositivo metodologico è costruito e calibrato sugli esiti di apprendimento dell’ordinamento scolastico italiano e permette di sviluppare una serie di analisi a livello specifico di istituto, di singola classa e anche – in condizioni di continuità didattica – di singola materia, come quelle relative: a) al “valore aggiunto” capitalizzato o meno nel loro percorso dagli alunni; b) all’individuazione delle cause cui ricondurre le difficoltà o le carenze di apprendimento.

La seconda ragione – e qui penso stia il punto di diniego fondamentale – è strettamente connessa alla prima e riguarda il fatto che le suddette analisi offrono contestualmente elementi di ritorno sull’efficacia del lavoro svolto dagli insegnanti e circa la qualità del servizio erogato dalle istituzioni scolastiche. La valutazione degli apprendimenti è infatti una sorta di moneta con due facce, con indici di risultato sia di quanto appreso dai discenti, sia circa la capacità del docente di mettere in moto e di far progredire l’apprendimento. Indici ovviamente sempre da leggere e da contestualizzare, ma come dati con cui fare inevitabilmente i conti.

La paura di misurarsi con un parametro univoco deriva fondamentalmente dalla paura di essere valutati, anche tramite una semplice messa confronto con altri (i colleghi, le altre scuole) e cela la volontà di non far emergere le differenze.

E che dire dell’obiezione relativa alla valenza processuale-formativa della valutazione, di contro a quella biecamente misurativa, riferita a standard di risultato? Di quale processo e di quale formazione staremmo parlando in questo caso? Di una progressione che concerne il lato umano e personale, di acquisizione di una stima verso di sé e circa le proprie capacità, di una consapevolezza dei valori sociali e civili, ai fini dell’inserimento nella società? Sì, certamente. Ma quale inserimento sarà quello di chi non ha contestualmente acquisito gli strumenti minimi per poter agire consapevolmente, entrare in rapporto con gli altri e – diciamolo con forza – poter esercitare con autonomia un lavoro? Perché la società e qualsiasi contesto reale di vita, che lo si voglia no, di fatto stabiliscono un “minimo”. Giustapporre le due dimensioni non ha assolutamente senso. Anzi: l’aspetto processuale-formativo è strettamente connesso e funzionale a quello di risultato, il cui ottenimento permetterà alla persona di essere effettivamente libera. Ogni altra cosiddetta “promozione”, ratificata da un pezzo di carta che non corrisponde – falso in atto pubblico! – ai livelli previsti dalla norma e dagli accordi con gli altri Paesi, costituisce solo una presa in giro di cui dovrà poi pagarne le conseguenze il destinatario.

In sede docimologica poi – lo ricordiamo ancora – l’assenza di un parametro univoco di riferimento nella stragrande maggioranza dei casi ha per effetto che nell’assegnare la sufficienza (operazione che equivale di fatto a fissare lo standard minimo) l’insegnante ricorre a un valore medio del gruppo classe che ha di fronte. Con la conseguenza che gli standard minimi variano da gruppo a gruppo e che chi si ritrova in un contesto deprivato, con gravi carenze, si vedrà certificato sia in itinere che alla fine questo stesso stato di deficit come livello sufficiente. Così chi è nell’arretratezza vi rimarrà. Con successive gravi difficoltà di inserimento nella vita sociale e lavorativa.

È questo un sistema che occulta, riproduce e riconferma le disomogeneità e le condizioni di arretratezza. Al Sud, come al Centro, come al Nord. Perché anche nelle scuole (dentro una stessa scuola) e in tante aree del Nord esistono, eccome, queste situazioni. Perché il buon Dio distribuisce tutto in modo eguale e non si nasce più intelligenti o capaci – anche di insegnare – in alcune parti geografiche del Paese.

Per contrastare le disomogeneità occorre affrontarle, ma per poterle affrontare occorre prima farle emergere, quindi operare scelte coraggiose e valorizzare chi sa dare con professionalità e passione una risposta efficace, spostando lì le risorse (non, a fondo perduto e a pioggia, senza verifica dei risultati), premiando il merito dei bravi docenti e delle istituzioni che lavorano bene. Al Sud, come al Centro, come al Nord.

Che farà ora il nuovo governo? Avrà il coraggio del cambiamento?