C’è bisogno di una nuova resistenza. Di qualcuno che gridi che il re è nudo. Di una scuola che, dentro una scuola che muore dentro i veleni che essa stessa produce, sia in grado di ricominciare. Cioè di rinascere. Ed è così che leggo i versi di Sebastiano Aglieco (Luce della necessità), come un grido insieme di dolore e di speranza nella possibilità di una scuola finalmente consapevole del suo compito:
“guido la fila/ come il tenente buono che tiene i suoi fratelli/ alla necessità della guerra/ mentre i capi guardano dalla finestra/ questo sperpero di corpi e di dolore/ e brindano alla vittoria/ nelle calde case dell’infanzia// così i miei capi/ di questi corpi ne fanno un dovere di parole/ scrivono regole/ stringono il cappio dei bambini felici// allora guido la fila per rabbia e presunzione/ e vi porto per la strada che è un segreto tra voi e me// qui i fiori sbocciano senza inganni/ la volpe ci guarda da lontano e ci saluta/ ci mostra le sue zampe feroci di libertà.”
Immagino così tutti i maestri, come il poeta maestro Aglieco, in un atto di ribellione e accusa nei confronti di chi, nascondendosi dietro direttive, circolari, indicazioni, curriculum verticali e orizzontali, stringe il cappio intorno agli alunni, grandi e piccoli, che inconsapevoli e felici vanno alla scuola pensando che sia stata costruita per loro, voluta e pensata per loro.
Convinti di andare a compiere una grande impresa, di ottenere la conquista più difficile, di conseguire la vittoria più importante, in realtà sono condotti in una trincea in cui non vedranno più la luce, verranno impacchettati e infiocchettati, spediti dentro il mondo con un bel lasciapassare europeo con tanto di timbri e ceralacca digitali che confermeranno il raggiungimento delle 85 competenze necessarie ad affrontare la vita, forse sufficienti per accedere a qualche concorsino o esame suppletivo che garantirebbe loro un trionfale ingresso sullo scenario mondiale del lavoro, con un bel contratto a tempo determinato eventualmente rinnovabile di tre mesi in tre mesi.
Non posso pensare che un maestro possa semplicemente dire di sì, o addirittura domandare, vista la sua impreparazione ad affrontare una simile battaglia, che gli organi competenti gli consentano di frequentare qualche corso di formazione per acquisire, anche lui, le competenze – immagino 215 – per potere trasmettere ai suoi alunni le persino parsimoniose 85 richieste dall’Europa e ben presto fotocopiate nelle direttive nazionali. Se questo è il quadro che andrà componendosi – come in modo documentato e preciso ha scritto Roberto Pasolini su queste pagine – io spero che un maestro segua piuttosto la strada indicata dal collega poeta.
Intanto con presunzione, la giusta presunzione: sì, perché i capi che scrivono regole e che forse sono stati maestri un giorno, ora sembra non conoscano neppure ciò di cui stanno parlando e per cui stabiliscono regole. Un maestro lo sa, invece. Sa che “la classe è piccola, come un nido” e che deve “aprire le braccia per le sue api, come la corolla di un fiore”. Sciocchezze da poeta, naturalmente. Il futuro è qui e non possiamo certo lasciare che i nostri alunni lo vedano passare, impreparati a saltargli addosso. Davvero si può fare soltanto quello che sembra suggerire Pasolini nel suo articolo? Davvero non ci si può che piegare a una sorta di destino che sembra scritto nel cielo, tanto sembra indiscutibile? E chi lo dice che non può essere messo in discussione?
Trovino i maestri dentro la loro esperienza e dentroscuola 280 il loro pensiero quella presunzione che spinge il maestro poeta Sebastiano Aglieco a disubbidire, non per imperizia, non per volontà di quieto vivere: prendano per mano i loro alunni e li guidino sulla strada che è un segreto tra loro, dove la realtà parla misteriosamente e sboccia senza inganni, dove la realtà ci guarda e ci mostra la sua domanda di feroce libertà. Mentre il poeta viaggia con la sua macchina nelle campagne della provincia piemontese, per raggiungere la sua scuola attraversa prati incolti: sono lo stesso cuore dei suoi alunni, come loro “attendono un verde lieve di gioia/ il pane che ci nutrirà/ un desiderio di festa e di campane”.
La mia giovane collega Alice, che ogni santo giorno ripete che vorrebbe anche insegnare, avrà sempre più occasioni per intristirsi davanti a richieste di redazione di programmazioni per competenze, di elaborazione di tabelle di valutazioni adeguate, di partecipazioni a corsi di formazione invocate perché maestri e insegnanti sono totalmente sprovveduti e impreparati. Ma non deve cadere nel ricatto: è la più giovane delle colleghe e in lei confida il sistema, dal Parlamento europeo al ministro italiano, al preside. Ma non ceda al ricatto, per paura di essere giudicata incapace di affrontare la sfida: adeguarsi o sparire non sono le due sole vie consentite. C’è la strada indicata da Aglieco, quella di un pensiero ancora capace di fare il suo mestiere; quella di uno sguardo ancora in grado di voler “vedere salire i bambini/ con petali di fiori sui capelli/ soffiare tra le foglie morte e restituirle agli alberi spogli/ ridere dello sconforto del mondo/ sputare contro gli uomini cattivi”.
C’è la strada folle, generosa e piena di cura e di rispetto della poesia che accoglie la realtà fino in fondo, che crede che la voce che esce dalla bocca di ognuno di noi sia quella di “un dio senza parole che ci abita tutti/ che ci tiene stretti qui/ a questa terra che si fa mistero e attesa di un perdono”. Lo ripeterò ancora una volta: alla fine, ciò che conta lo dicono i poeti. Correggendo un verso dello stesso Aglieco, un “maestro costringe lo sguardo alla vita, rimanendo anche capace di vivere nell’attesa di un altro fiore”: lo so, Alice, sembra più difficile dell’ultima circolare. Ma quello che vuoi fare tu, insegnare, è un mestiere difficile. Ben più difficile che spiegare una metafora che, nella sua cruda potenza, rivela l’inganno dentro il quale continuamente si avvinghia una scuola che non sa più quale sia il suo compito. È la nuova resistenza: qualcuno deve gridare che il re è nudo. Oltre i corridoi della scuola, Alice, oltre le aule docenti.
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