Alice era stata bocciata, le sue amiche adesso stavano a distanza, da quando sul registro elettronico erano usciti i risultati nessuna l’aveva cercata, erano sempre insieme ma ora non più. Alice era considerata una ragazza sconfitta che sarebbe rimasta indietro.
Era l’esperienza della solitudine, un dramma che non conosceva e di fronte a cui non sapeva cosa fare. E non si rendeva neppure conto che la domanda sul che “fare” fosse sbagliata.
Alice, rimasta sola, aveva deciso allora di darsi alla fuga. Ma fuggire dove?
Si sentiva giudicata da tutti, aveva fallito e provava un senso di vergogna insopportabile.
Aveva finalmente trovato un luogo di fuga: il proprio io. Così si era chiusa in se stessa a soppesare la propria umanità ferita. Non voleva sentire dolore, voleva difendere se stessa dai nemici esterni, entrando in sé trovare qualcosa di cui essere di nuovo fiera dopo che la sua immagine era andata in frantumi.
Aveva scavato in se stessa, rimanendo ore e ore nella propria camera, avvolta da un silenzio senza pause; ed erano state giornate lunghissime, senza che alla fine vi fosse uno spiraglio di positività. Sempre riemergeva quell’amara sensazione di non valere nulla.
I suoi genitori erano preoccupati, le amiche erano ricomparse, ma lei non voleva la pietà di nessuno, per cui alle mani che bussavano alla porta del suo cuore rispondeva gentilmente: “va tutto bene, voglio stare un po’ con me!”.
La bocciatura era una ferita che continuava a fare male e lei non riusciva a togliersi di dosso quel bruciante dolore. Anche la fuga nel proprio io era un fallimento, perché di fatto non riusciva a scappare dalla realtà, però al tempo stesso non trovava energie per potersi riscattare. Era come se si fosse impadronita di lei una sottile voglia di non vivere più.
In questo deserto rimaneva attivo il suo computer e Alice lo usava per tentare un’altra via di fuga, quella dei social. Vi si ficcava a capofitto, ore e ore isolata dalla realtà e alla fine una sensazione di vuoto aumentato. Alice capiva che le sue vie di fuga erano impraticabili, perché non si poteva fuggire, quel dolore non si poteva rimuovere.
Tra le strettoie delle sue prospettive senza via d’uscita aveva cominciato ad insinuarsi una domanda: “ma io chi sono?”. Alice non sopportava di essere la ragazza bocciata. Gli altri, tutti, anche i suoi genitori la vedevano così, ma lei capiva di non essere quello, però non riusciva a togliersi di dosso quella angusta definizione.
E così, Alice era finita in un vicolo cieco. Voleva fuggire, facendolo aveva capito quanto fosse inutile e non una vera prospettiva per lei, però non aveva la forza per ritrovare se stessa.
Fino al giorno in cui aveva squillato il suo cellulare, un numero sconosciuto. Non sapeva se rispondere o no, poi aveva risposto.
“Ciao Alice”. Era una voce conosciuta, era il professore di italiano che l’aveva aiutata durante l’anno, il pomeriggio, nel centro di aiuto allo studio che Alice frequentava.
Alice era rimasta sorpresa, non si aspettava quella telefonata, il cuore aveva cominciato a battere a mille, ma non le uscivano le parole dalla bocca, neanche un “ciao”.
“Ci sei?” aveva chiesto il professore di fronte a quel grande silenzio e Alice aveva biascicato un misero e flebile “sì”.
“Ho saputo che sei stata bocciata”.
Di nuovo un povero “sì” aveva rotto il silenzio. Alice non sapeva che altro dire, non lo voleva neanche!
“Credo che tu stia male, sappi che porto sulle mie spalle la tua bocciatura, sappi anche che tu vali di più dei voti che ti hanno dato, e non l’anno prossimo perché ti impegnerai di più, no. Tu vali oggi”.
Ora l’ennesimo “sì” di Alice non era più trascinato, era un “sì” quanto mai sentito, era il “sì” della svolta. Il suo io cominciava a riprendere forma in quella telefonata.
Riattaccato il telefono Alice era uscita dalla sua camera incontro alla realtà, ci voleva uno che la guardasse per quello che continuava ad essere per poter affrontare la situazione. Rimaneva la sconfitta, la vergogna di fronte agli altri, rimaneva il giudizio degli altri, ma ciò che si era impresso in modo decisivo sul cuore era quella voce, quello sguardo, un professore per cui lei valeva. Era uno sguardo che lei non avrebbe più dimenticato.
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