È di nuovo “lockdown”. Chiamiamolo pure “light” o differenziato per zone, se questo può in qualche modo far star meglio qualcuno, ma sempre di “lockdown” si tratta. E il fatto che sia un po’ meno restrittivo di quello che si è vissuto a marzo e aprile, può consolare francamente ben poco. Ma anche cavarsela dicendo “teniamo duro e speriamo che finisca presto” difficilmente può migliorare il nostro umore.



Siamo in un tempo tremendamente drammatico e tuttavia non possiamo esimerci dal viverlo. Nei momenti di pandemia la prima cosa a cui appellarci per vivere sembrano essere i protocolli. Certo le istruzioni per l’uso sono necessarie e devono essere ben applicate, ma i protocolli restano sempre degli utili strumenti e non possono mai essere la soluzione. Ognuno di noi, prima di tutto singolarmente e poi come membro di un collettività, è chiamato ad assumersi la responsabilità di vivere questo tempo senza lasciare inevase le domande e le contraddizioni che esso porta inevitabilmente con sé. Da qui, da questo “disagio che ha assunto la forma di una domanda esistenziale” prende le mosse lo psicoterapeuta e scrittore Luigi Ceriani nel suo ultimo libro Figli, rischi & villaggio (globale). Dialoghi sull’educazione, uscito da pochi giorni nella serie “Genitori&Figli” delle edizioni Ares.



Il libro è diviso in tre parti. La prima (“Per fare un bambino ci vuole un villaggio”) e la terza (“The New World”) costituiscono le personali riflessioni dell’autore davanti alla grande emergenza educativa e alla gravi problematiche che essa porta con sé: problematiche che, come l’autore stesso suggerisce, la pandemia non ha generato ma ha piuttosto “prepotentemente amplificato”. La seconda parte del volume, dal titolo “Conversazioni”, raccoglie invece i dialoghi che Ceriani ha avuto, durante numerosi corsi di formazione per genitori e insegnanti, in particolare quelli tenuti ad Opera nel progetto “Scuola Genitori”, con numerosi professionisti e intellettuali del mondo della scuola, della cultura, dell’educazione, della medicina e del giornalismo italiano (Massimo Recalcati, Paolo Crepet, Antonio Polito, Mario Calabresi, Umberto Galimberti, Daniele Novara, Alessandro Meluzzi, Mario Mauro, Fausto Bertinotti, Franco Nembrini, Giorgio Vittadini e Raffaela Paggi).



I temi trattati in questo libro, oggi più che mai attuale perché scritto in tempo di pandemia e pubblicato proprio quando le nostre vite sono tornate a subire l’ennesimo violento scossone, sono tanti e tutti interessanti. Qui si deve per forza operare una selezione e ci si limiterà a discutere alcuni aspetti essenziali che possono rappresentare un valido invito alla lettura.

All’origine di quel grido d’aiuto incarnato dal disagio che accompagna la vita di giovani, adulti e spesso di tante famiglie c’è per Ceriani quel grande problema che determina ogni umana esistenza e che si chiama felicità. Il problema in sé, ovviamente, non è la felicità, il problema è che si cerca di risolvere la questione “felicità” con delle procedure, con delle tecniche che curino e sedino il disagio o il bisogno profonde che alberga in ciascuno di noi. Ma le tecniche di addomesticamento del disagio non ci hanno reso felici, ci hanno reso privi di passione, piatti, disimpegnati con la realtà e incapaci di coglierne l’attrattiva. Ciò è macroscopico nelle generazioni più giovani; e qui mi sia concesso riportare alcune righe che ben descrivono la situazione attuale: “I nostri giovani si frequentano e si conoscono con una certa facilità (social network, chat, video–giochi e chi più ne ha più ne metta), ma senza realmente toccarsi. Non sono incontri di intimità o relazioni che scavano nell’altro, non cambiano le persone. Su tutto vige una sorta di anestesia emotiva. Sembra che la nostra società abbia reso sistema un individualismo così esasperato che le società che ci hanno preceduto non hanno mai conosciuto. Ieri la novità era l’incontro in chat, oggi l’eccezione è diventata la regola. L’età dell’inquietudine è diventata l’età della quiescenza. La maggior parte delle energie vengono canalizzate in un tentativo sempre più estremo di differenziazione dal mondo degli adulti percepito come lontano o come insopportabile e non desiderabile”.

Ma la ragione di questa situazione non sta nel fatto che i ragazzi sono sbagliati, è che pagano le colpe e le paure dei genitori: perché noi genitori anziché “essere generatori di senso” ci siamo per primi aggrappati alle procedure e ci siamo sottratti al compito di trasmettere una idealità e un significato positivo per cui valesse la pena spendere la vita. In una parola, insomma, abbiamo smesso di essere padri: per essere padri bisogna poter affondare le proprie radici in una tradizione cha abbia un senso da comunicare, perché solo la proposta di un significato, anche un significato metastorico, fonda quell’autorità o meglio quell’autorevolezza oggi sconosciuta e di cui invece i ragazzi hanno tanto bisogno e di cui, spesso, sebbene in modo scomposto, manifestano la necessità. Lascio al lettore il piacere di gustarsi queste pagine in cui l’autore spiega come e cosa ha prodotto questa crisi e vado ad esporre alcune delle principali ricadute che, secondo Ceriani, sono l’esito “dell’eclissi del principio di autorità, cioè dell’elemento fondante della relazione genitore–figli”.

La paura del conflitto e del dolore, l’assenza di coraggio e la conseguente incapacità di guardare in faccia il mistero e l’enigma che sono i nostri figli, il terrore di assumersi dei rischi e delle responsabilità, un relativismo vuoto più subìto che voluto e che sfocia spesso nell’indifferenza: sono  questi i risultati più eclatanti di questa cronica incapacità di educare.

Ma in questo scenario così desolante su cui l’emergenza sanitaria mondiale ha agito da devastante detonatore, da dove ripartire? Da quelle che Ceriani chiama esperienze profetiche, ossia dalle testimonianze di vita di quegli uomini ancora appassionati, ancora capaci di non rinunciare alla grandezza del proprio desiderio, di non abdicare all’uso ragione, di lasciarsi ferire da quell’imprevisto che sempre può accadere. La seconda parte del libro, su cui è bene non fare anticipazioni lasciando a chi legge tutto il piacere della sorpresa, racconta infatti i dialoghi con questi testimoni perché “è proprio nei momenti di crisi che nascono i profeti”.

E il compito dei profeti, ma poi il compito di chiunque non si sottragga alla sfida educativa (e quindi il compito di ciascuno di noi), è quello di tenere viva la speranza; e la speranza, si badi bene, non è l’illusione che tutto vada bene, perché i tempi odierni ci dicono chiaramente che non va tutto bene, ma è la testimonianza che la vita un senso ce l’ha. La speranza non è lo sciocco ottimismo in forza di cui illudersi che si possa vivere una vita senza paura e senza fatiche o contraddizioni. La speranza è quella certezza che nella vita si genera quando si riconosce un significato positivo perché esso è ciò che consente di stare davanti alla paura, alle crisi e ai fallimenti. “L’adulto può ammettere di avere paura – scrive Ceriani –, ma deve anche testimoniare che la paura può essere affrontata (a cosa servirebbe altrimenti il coraggio?). Cadere si può, ma ‘perché cadiamo? Per imparare a rimetterci in piedi’. Così parla un vero padre, che insegna ad affrontare lo sconforto, il fallimento, la paura. Questo è il messaggio che deve arrivare ai nostri figli, attraverso gli adulti che li circondano, in famiglia e nella scuola. Per essere credibili, però, è necessario che iniziamo noi per primi ad affrontare la paura, quindi il rischio, magari proprio scommettendo sulle risorse dei nostri figli. Al bambino che non dorme a causa di una fiaba che lo ha spaventato, non bisogna dire: ‘Tranquillo, era solo una fiaba… e poi a Milano i lupi non ci sono!’, ma: ‘Dovessero anche arrivare i lupi, tuo padre c’è’”.

Oggi più che mai quello che deve prevalere non deve essere la preoccupazione di risparmiare a noi e ai nostri figli i pericoli, i rischi e la paura ma l’appassionata esigenza di comunicargli le ragioni per affrontare le difficoltà, i pericoli, la paura. “Dunque, il compito di ogni adulto, genitore o insegnante che sia, è affermare (o ritrovare) il senso della vita, così come dare un senso alla disgrazia, l’unica armatura che serve davvero ai nostri figli”. Solo così questo tempo drammatico può diventare anche un momento propizio: chiusi in casa sì, e pure in “lockdown”, ma desiderosi di avere come orizzonte il mondo, un mondo che ognuno è chiamato a costruire ora, con il suo esserci.