Nella mia vita ho sempre avuto per compagno il latino. L’iniziazione avvenne con un libro di mitologia (in italiano), in particolare più centrato sulle Metamorfosi di Ovidio. Non memorizzai neanche il nome di Ovidio e il significato di metamorfosi lo compresi leggendo. Non frequentavo ancora le scuole medie ma si trattava di un testo adottato per la scuola media da mia zia. Fu una meravigliosa scoperta: il regno di dei ed eroi, le trasformazioni di fanciulle e ragazzi in alberi, fiori, volatili: la vita che continua, mutate le forme. Era solo fantasia o traeva suggerimento dalla realtà? Che cosa testimoniavano quei miti, quei racconti? Ne subivo il fascino incantata. Soffrii per Piramo e Tisbe.
L’impatto con la lingua – al primo anno delle medie – non fu meno affascinante. È vero che all’epoca le lingue moderne parlate non erano diffuse (a scuola si studiavano per leggere pagine in lingua straniera), per cui per me si trattava di conoscere l’alterità attraverso il latino. Ma non fu questa sola differenza che mi colpì, quanto piuttosto l’incontro fra il mio italiano, lingua analitica (ovvio che all’epoca non usassi queste espressioni) e il latino, lingua sintetica: la differenza quindi che, per esprimere la funzione dei termini nel contesto della frase, si usassero nell’una le preposizioni esterne al vocabolo stesso in questione, mentre nel secondo caso ci fosse l’uso della desinenza, ovvero l’aggiustamento identificatore di funzione in fine di vocabolo.
Alla differenza morfologica – che si limitava piuttosto a questo, essendo simile la struttura del verbo – corrispondeva invece un’organizzazione sintattica del tutto confrontabile.
Tra i primi autori ricordo Fedro, Tibullo, Cornelio Nepote. La fiaba con clausola morale, la campagna romana, gli uomini “illustri” di Roma. L’orizzonte si apriva ai secoli, ai millenni (lo studio della storia era essenziale) e il tempo palpitava di voci e di volti. Il mio linguaggio si arricchiva moltissimo, come pure la coordinazione inflessibile, in latino, della costruzione del periodo mi insegnava a parlare e a scrivere limpidamente.
Negli anni dovevo diventare una patita di etimologie e dovevo cercare di definire un metodo scientifico della traduzione (come poi ho realizzato con un testo ad hoc insieme a dei collaboratori): linee guida di cui non sentii la mancanza nelle scuole medie, dove fra l’altro spesso il testo latino ci veniva presentato “facilitato”, come allora si diceva, ma certamente ne sentii l’esigenza (allora non soddisfatta) al liceo.
Queste due indicazioni costituiscono una validissima metodologia per l’insegnamento del latino e per la stessa motivazione didattica. Focalizzare l’attenzione sulle etimologie significa abolire i confini tra i popoli indoeuropei: apparteniamo allo stesso ceppo linguistico e nel contempo, facendoci guardare dentro le parole, ci fa comprendere le stratificazioni, le allusività dei singoli vocaboli. Faccio un esempio: la parola anima, lat. anima/animus (francese âme, spagnolo alma) ha lo stesso radicale di ànemos del greco, dove significa vento e del sanscrito anithi dove dice il respiro.
Si aprono possibilità di riflessione sul concetto di anima e la sua essenza. E ancor di più se penso alla parola tempo, latino tempus, che condivide (e nei due casi secondo precise regole fonetiche) il radicale del termine greco temno o di teino. Il concetto di tempo ha creato molto pensiero nei secoli (filosofi, scienziati, psicologi). Osservare l’etimo ci dice che se vi riconosciamo il radicale del primo verbo greco citato consideriamo il tempo come un ritaglio (temno, io taglio), un segmento dell’eternità ma soprattutto arriviamo alla concezione minima del tempo, cioè dell’istante, o punctum temporis, valutata nei secoli da filosofi e poeti, su cui si giunge ad avvertire tale la vita stessa: cito Seneca che ricordava già Archita di Taranto quando affermava: punctum est quod vivimus et adhuc puncto minus, “un istante quello che viviamo e ancor meno” (Ep. 49,3). Fino a Bachelard – siamo nel 900 – che avvertiva il tempo come successione scollegata di punti o istanti (punctum temporis).
Se invece pensiamo che tempus abbia lo stesso radicale di teino, allora prevale la considerazione del tempo come una distensione, una continuità. Risento Agostino: inde mihi visum est nihil esse aliud tempus quam distensionem, sed cuius rei nescio et mirum si non ipsius animi, “quindi mi parve che il tempo altro non fosse che una distensione/ estensione, ma non so di cosa ma strano se non fosse dell’animo stesso (Conf. 11,33), concezione psicologica del tempo che Heidegger faceva risalire ad Aristotele. E nel 900 va segnalata anche l’espressione di Bergson in opposizione a Bachelard: il tempo è la fluida corrente del mutamento. Si apre anche il confronto con il flusso coscienziale di Husserl.
Il libro della lingua è un regno di meravigliose riflessioni e il latino è particolarmente indicato a queste riflessioni perché fa da ponte tra l’antico e la contemporaneità, anche perché i suoi autori e il loro pensiero o addirittura le forme stesse della scrittura furono fonte di ispirazione per secoli e secoli, fino ad arrivare a noi. Se manca l’àncora del mondo antico ogni discorso è acefalo.
Entriamo così nell’argomento specifico dell’apprendimento della letteratura latina. Va considerato innanzi tutto che quando ci si riferisca a “letteratura” antica, greca e latina, il termine comprende non solo i testi letterari stricto sensu come quando ci si riferisce allo studio scolastico delle letterature moderne che prendono in esame testi di poesia, romanzi, testi di teatro, bensì studiare a scuola una letteratura antica vuol dire includere anche tutti i testi di filosofia, storiografia, e i testi scientifici. La conoscenza della scrittura del mondo antico pretende un’immersione totale nelle sue testimonianze.
Oltre allo studio dei grandi autori che non cito perché ben noti, considero fondamentale lo studio dell’eredità classica, della loro ripresa quindi e rielaborazione (che può presentarsi come continuità o contestazione) lungo i secoli moderni. Si tratta di una ricerca che ha i caratteri dell’avventura, potrei dire, perché la loro memoria è disseminata nelle pagine di tutte le letterature almeno europee e gli autori moderni vanno compresi (finché possibile) nella loro lingua originale, proprio per sentire il fluire di una lingua (con il suo carico di significanza, e questo vale in particolar modo per i testi poetici ma anche filosofici) nei modi dell’altra.
Fu su questa via che incontrai di nuovo Piramo e Tisbe. Senza più le metamorfosi nel gelso dai fiori rossi che faceva suo il colore del sangue dell’infelice amante. Essi ritornano con altri nomi nelle pagine di Masuccio Salernitano e Mattea Bandello. Luigi da Porto adotta i nomi di Giulietta e Romeo e così li immortala Shakespeare. Lo scrittore inglese conosceva il testo ovidiano, tanto è vero che nel suo A Midsummer Night’s Dream fa affannare i suoi personaggi in una sorta di metateatro mentre cercano di mettere in scena Pyramus and Thisbe.
Tralasciando altra presenza della memoria della pagina ovidiana devo dire che i confini del tempo di questa memoria, facendo ricerca, si sono allargati anche nello spazio. Ovidio aveva avvertito che i due giovani erano di Babilonia. Ebbene, la storia di Layla e Majnun (il poeta “pazzo d’amore”, così definito, dalla sua tribù dei beduini, Qays ibn-al Mullawah) del VII sec. ricorda i nostri giovani babilonesi. Una coincidenza? Potrebbe essere, ma l’archetipo della storia è comune, perché le due coppie iniziano la loro storia per la stessa fortuita occasione: parlandosi in una crepa della parete che li divide. Nel XII sec. il poeta persiano Nizami Ganjavi diffuse la storia di questo amore infelice, contrastato dalle famiglie, per tutta l’Asia.
Ora, è vero che noi studiando gli antichi testi ridiamo voce alle ombre, un po’ come Ulisse nella sua nékuya, o evocazione dei morti, che, facendo un sacrificio animale, poteva far abbeverare del sangue le anime che gli si affollavano intorno perché così il sangue ridava loro la vita, la voce per poter comunicare con lui. Ma è altrettanto vero che noi suggiamo una linfa vitale immergendoci nei secoli e nei millenni: acquistiamo una visione universale delle cose, impariamo l’alterità, la differenza, facciamo nostro il desiderio di uscire fuori alla conquista della conoscenza in sé. Diveniamo aperti ai popoli tutti. È una sete di conoscenza, perché saliamo su nelle età del mondo, siamo ricchi, come diceva Seneca, di tutte le loro vite che gli autori che abbiamo letto e studiato, ci hanno regalato.
Il latino, per i nostri giovani, dovrebbe essere tenuto come una porta aperta per tutti, perché è quel ponte che fa conoscere e sentire cosa significhi l’immortalità umana, non destinata a essere polvere finché noi sapremo mantenerla in vita.
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