Mi è capitato quest’anno di seguire la realizzazione di un murales di una mia classe quarta per la scuola dell’infanzia “Rebuffone” di Brescia, che voglio citare come esempio virtuoso di come si possa educare a un rapporto quotidiano con l’arte, fin dai primi anni di scuola. Forse non è l’unica (c’è da sperarlo) ma io non ho mai riscontrato altrove questa impostazione: in ogni aula è appeso alla parete un compensato bello grande, e di fronte ci sono i materiali, con i barattoli dei colori sempre aperti, pennelli e pennarelli a portata di mano; i bambini possono appendere i fogli al compensato e dipingerci o disegnarci sopra, in qualsiasi momento della giornata, sempre. Può sembrare poco, ma non lo è, perché significa che quei bambini hanno la possibilità di sviluppare un rapporto con l’arte diretto, naturale, libero da condizioni e convenzioni, non rinchiuso nel contesto del momento del “lavoretto”, non finalizzato a un prodotto, e questo non è affatto scontato.
In molte scuole quella di ottenere un prodotto bello è ancora la preoccupazione principale, magari perché i docenti si sentono ricattati dall’incapacità dei genitori di capire quale sia il vero valore dell’esperienza artistica per i bambini, o non capendolo la scuola per prima, ossia che ciò che ha valore è il processo, perché “bello” non è il prodotto, ma l’avventura del fare, la gioia di sperimentare e quindi di conoscere. “Bello” poi in questa accezione significa solo “che rientra in uno schema” di cose già viste o che la maestra tenta di sistemare esteticamente, al massimo una bella copia.
In questo modo applichiamo l’unico criterio di giudizio che abbiamo verso l’arte (solo figurativa!) al lavoro dei bambini, reiterando i danni di generazione in generazione: “È bello se assomiglia”, ossia ciò che produci non ha un valore in quanto fatto da te – essere unico e irripetibile come irripetibili sono le tue manifestazioni segniche – ma in misura proporzionale alla tua capacità di copiare fedelmente ciò che si vede. Ma l’imitazione in arte non è affatto lo scopo, ma solo il tramite. Se questo è il metodo su cui si costruiscono i programmi scolastici alle elementari e con cui misuriamo più o meno consciamente i disegni dei pargoli, non c’è da stupirsi che il risultato siano le dolorose frustrazioni, il conseguente abbandono del disegno e infine il disinteresse per l’arte tutta.
Eppure siamo il Paese di Bruno Munari, che nei suoi laboratori chiedeva a tutti i bambini di portare un oggetto verde, sapendo che il prodotto di quell’assemblaggio non sarebbe stato altro che un’accozzaglia dei materiali più disparati; ma sapeva anche che il risultato sarebbe stato molto di più di ciò che si vedeva: i bambini avrebbero visto e imparato quanti verdi ci sono nel mondo, avrebbero intuito che in una categoria ci sono mille sottili differenze, avrebbero acuito la loro capacità attentiva, avrebbero modulato la loro testolina su quelle sfumature, spezzando uno schema conoscitivo basilare per fare posto a una più fine lettura della realtà. E questo è un risultato didattico, educativo ma soprattutto umano.
Tutto ciò accade solo nelle scuole più illuminate, che fanno usare tempere e pennelli, mostrano immagini di artisti, mentre nelle altre al massimo si colorano le fotocopie, quando alla maestra – perché lo specialista di arte non è contemplato, in Italia! – le gira di fare arte, se no anche niente. Ma è impossibile comprendere e apprezzare i fatti manuali senza un’educazione anzitutto pratica, dentro cui scoprire la molteplicità e il gusto per la creazione delle forme ancor prima che abbiano un senso. La nostra scuola è tutta fondata sulla parola, e ci dimentichiamo che il disegno è anch’esso un linguaggio, e che per i bambini è un’esperienza fondamentale, sotto svariati aspetti, a cominciare da quello spaziale-corporeo, così come quello manuale-coordinativo, e naturalmente dal punto di vista psicologico-espressivo; ma soprattutto attraverso quei segni via via più articolati e simbolici, i bambini ricreano la struttura del mondo, cioè conoscono.
Siamo una società, anche qui in Italia e questa è davvero una sofferenza, che considera l’arte e l’educazione all’arte come qualcosa di accessorio, che non ha una funzione se non quella del diletto, e che, come tale, va trattata: si fa quando si ha tempo da perdere, perché ciò che conta sono i numeri, i dati oggettivi, la scienza e la tecnica per non dire il profitto. Raccontiamoci pure che siamo il paese dell’arte e della creatività, ma è già da un pezzo che il genio italiano è tramontato nelle sue espressioni più grandi, e non c’è di che stupirsi, se anche la scuola è totalmente piegata alle logiche del mercato del lavoro invece che alla formazione di menti liberamente e criticamente pensanti. Già l’Argan, introducendo la sua Storia dell’Arte Italiana, chiedeva che venisse insegnata anche ai tecnici, affinché gli studenti non avessero il feticismo della macchina, e aveva ragione da vendere, perché anche un mondo come il nostro dominato dalla razionalità ha bisogno della creatività, perché è questa che risolve i grandi problemi, che educa la mente ad essere flessibile, allena l’intuizione e il pensiero laterale, e tutto questo giova non solo allo studio di qualsiasi materia, ma alla nostra vita stessa in termini di salute mentale: poche esperienze come il disegno fanno del cervello uno strumento attivo e prensile, in grado di spaziare in tutti i campi e legarli tra loro, e l’ambito creativo ci aiuta a riprendere coscienza del fatto che siamo anima e cuore, e che siamo molto di più di un ingranaggio funzionale al sistema.
Per far si che l’arte rimanga una passione e sia considerata un orizzonte culturale o professionale dagli studenti che escono dal liceo, ci vuole un’ininterrotta sequenza di momenti di qualità che inizia da bambini, perché il nodo centrale non è la teoria dell’arte, ma la pratica artistica, a cominciare da un’educazione all’osservazione attiva che è già esplorazione e immedesimazione e non ricezione passiva, in definitiva la nostra esperienza personale di cosa sia l’arte in tutte le sue declinazioni.
Questa sarebbe una vera innovazione didattica radicale, ossia rendere l’aspetto creativo la base di ogni pratica di apprendimento, iniziando a sentire come necessario fare il percorso dell’artista in prima persona, che nel suo atto creativo non è molto diverso dal bambino: cerca, attraverso il suo gesto, di comprendere il mondo.
(3 – fine)
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