In questo intervento, pur facendo riferimento ad argomentazioni e proposte sviluppate nel mio ultimo articolo, vorrei approfondire un tema che può mettere in risalto l’indiscutibile funzione pubblica della scuola paritaria.

Parto da un tema che da diverso tempo è stato colto nella sua drammaticità e preoccupazione per il futuro del nostro Paese: l’inverno demografico.



Come sappiamo ed abbiamo appreso a più riprese dai media e da interventi del mondo politico ed istituzionale, nel 2023 le nascite, in Italia, sono diminuite di 14mila unità (il 3,6% in meno rispetto allo scorso anno) con un calo del tasso di natalità nel 72% dei comuni italiani, questo dovuto alla ormai stabile bassa tendenza ad avere figli (1,2 figli per donna nel 2023, Italia terzultima in Europa).



Gli analisti lanciano l’allarme ritenendo numerose e gravi le conseguenze di questa dinamica, se non invertita: senza un ricambio di nuove forze lavoro sono destinati a diventare insostenibili il sistema sociale, quello previdenziale e sanitario con ripercussioni economiche che saranno pagate soprattutto dai più deboli; la forza lavoro si riduce, potenzialmente limitando la crescita economica (secondo le previsioni, se il trend rimarrà inalterato, nel 2042 si potrebbe avere una perdita del Pil fino al 18%). L’Istat prevede un crollo della popolazione residente. Dai 59,2 milioni di abitanti nel 2021 si passerebbe ai 57,9 nel 2030, per poi scendere a 54,2 nel 2050 e a 47,7 milioni nel 2070.



Questa allarmante e preoccupante prospettiva ha creato consapevolezza nel mondo politico e la presidente del Consiglio, in una intervista di qualche mese fa, ha riassunto in uno slogan il suo pensiero: “senza figli il nostro futuro semplicemente non esiste” e se non lo si “mette in sicurezza”, perde di senso anche “gestire il presente”.

Il testo della legge di bilancio 2025 presentato in Parlamento per la discussione e l’approvazione fa qualche passo nella direzione di una possibile soluzione a questa situazione angosciosa:

1) bonus una tantum di 1.000 euro per ogni nascita, per le coppie con ISEE inferiore a 40mila euro;

2) esclusione dell’assegno unico per il computo dell’ISEE per la concessione di diversi altri contributi;

3) allargamento del numero di coppie che ha diritto al bonus-nido;

4) allargamento da due a tre mesi dei congedi parentali retribuiti all’80%;

5) Parziale esenzione degli oneri contributivi per le madri di due o più figli, a condizione di un ISEE inferiore a 40 mila euro.

Le diverse associazioni che si interessano al problema demografico considerano l’intervento, nel complesso, troppo timido e, soprattutto, senza neppure un tentativo di intervento sulle cause strutturali che rendono difficile, per i giovani, decidere di costruirsi una famiglia, facendo sì che il divario rispetto alle politiche familiari europee rimanga ancora evidente.

Va poi detto anche che, secondo gli esperti di demografia, per ogni intervento positivo il tempo di attesa dei risultati concreti è lungo, mediamente una decina d’anni!

La sintesi del giudizio non positivo è, anche in questo caso, uno slogan: “Neanche questa legge di bilancio metterà chi desidera avere figli nelle condizioni di averli”.

A questo punto credo sorga spontanea una domanda: cosa manca? La riposta a questa domanda è la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo articolo.

L’econometria insegna non solo che ogni decisione politica, prima di essere presa, deve valutare ed analizzare tutti i collegamenti (semplice esempio: l’indotto), le sinergie che la scelta comporterà e le relative conseguenze positive e negative, ma anche che l’istruttoria ed i calcoli per costruire le proposte che mirano alla soluzione di un problema debbono analizzarne la complessità e prendere in considerazione “tutti” gli aspetti che sono utili e necessari per raggiungere il risultato. Dimenticarne e/o non considerarne qualcuno quasi sempre porta a non raggiungere l’obiettivo.

Mi scuso per l’esempio banale che potrebbe essere iscritto nelle massime di Monsieur de La Palice: se stanzio ed erogo alle famiglie un bonus nido (che porti anche alla gratuità del servizio), ma non attivo contemporaneamente azioni che mettano a disposizione strutture e posti disponibili a tutti coloro che hanno bisogno e richiedono il servizio, non ho fatto solo una scelta sbagliata da un punto di vista dell’econometria, ma anche una scelta inutile, oltre che una dispersione di risorse, perché tale scelta non risponde all’esigenza e non permette la soluzione del problema.

Nel suo complesso, l’analisi internazionale sul tema dimostra che i Paesi con un tasso di natalità più alto sono quelli che non si sono limitati ad incentivi di natura economica (in alcuni Paesi non sono neanche previsti), ma hanno attivato consistenti politiche economico-sociali in appoggio alle famiglie con figli piccoli, alle mamme in modo particolare.

Francia e Paesi del Nord Europa sono in alto nella lista. Un esempio particolare è la Svezia  dove, come evidenzia Gunnar Andersson, responsabile dell’Unità di demografia dell’Università di Stoccolma: “In Svezia non paghiamo le persone per fare figli, dando loro degli incentivi economici, ma rendiamo possibile organizzare la propria vita con dei figli in modo pratico e con sostegni adeguati”. Di fatto la Svezia non ha puntato su bonus o assegni che vanno a famiglie con un certo reddito o un dato numero di figli, ma su politiche universalistiche e sui servizi per l’infanzia.

I servizi per l’infanzia sono una delle chiavi del problema, se non tra le più importanti per l’organizzazione della vita delle famiglie con figli. Il nostro Paese, oltre ad altri aspetti di politica sociale che favoriscano il lavoro delle donne con figli, deve puntare sul fatto che i servizi per l’infanzia siano potenziati per raggiungere l’obiettivo che possano essere offerti a tutti i richiedenti, al costo più basso possibile (se non gratuiti).

Incongruenza e motivo fondamentale del mio articolo: i servizi per l’infanzia, come le scuole per l’infanzia, in Italia – come dicono i dati statistici – sono gestiti da privati e quindi rientrano nel “settore paritario”. Un muro per chi è ideologicamente orientato a pensare che questi servizi dovrebbero essere solo statali.

Quanto scritto credo possa dimostrare quanto il servizio offerto dai servizi per l’infanzia (come i nidi) sia pubblico e fortemente legato alle politiche contro la denatalità. Molte di queste attività sono in difficoltà gestionale anche in funzione di nuovi impegni retributivi (rinnovo dei contratti, nuove qualifiche a livelli superiori degli educatori cui oggi è richiesta la laurea, etc.) e rischiano di dover chiudere quando il Paese ha immenso bisogno della loro presenza. Vanno aiutate, valorizzate oltre incentivare nuove aperture. Occorrerebbe che un certo oscurantismo ideologico facesse un passo indietro e capisse che aiuti economici a queste realtà non dovrebbero essere considerati “contributi alle scuole paritarie”, ma “risorse utili alle politiche contro la denatalità”!

Ad oggi nel testo della legge di bilancio non ho trovato risposte all’elenco di criticità esposto nel mio citato articolo, nonostante le scuole paritarie offrano un servizio pubblico nell’interesse del Paese. Possiamo solo augurarci che qualche parlamentare animato da senso dello Stato intervenga con opportuni emendamenti durante la discussione in Parlamento. La speranza è l’ultima a morire.

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