Ricorre nella storia scolastica italiana – specialmente in quella più recente – la tentazione di affidarsi a forme organizzative, didattiche e metodologiche innovative (o presunte tali) in grado, secondo i loro sostenitori, di far compiere al sistema scolastico un sostanziale salto di qualità. Credenze talora molto diffuse fino a sconfinare nel mito.
Negli anni 70, ad esempio, imperversarono le tesi della programmazione didattica, una specie di taylorismo scolastico veicolato dalle psicopedagogie neo-comportamentistiche statunitensi. Poco dopo – in reazione all’eccesso di metodismo della programmazione – fece seguito una diffusa infatuazione per il cooperative learning, comprensiva della demonizzazione dello studio individuale e della lezione frontale. Si potrebbe continuare con molti altri esempi. Di solito, trascorso un po’ di tempo, e valutati i risultati reali rispetto alle miracolistiche aspettative iniziali, in tutto o in parte si è puntualmente fatta marcia indietro.
Nessuna persona di buon senso, ad esempio, può negare l’utilità dell’apprendimento cooperativo entro certi limiti e con docenti ben formati, ma di qui a farne un metodo universale il salto è improponibile. E infatti, passato l’entusiasmo dei primi tempi, di cooperative learning si parla oggi con maggior prudenza e cognizione di causa, evitando di considerarlo uno strumento salva-scuola.
In genere le innovazioni frutto di un’esaltazione collettiva e abilmente pilotate dall’editoria specializzata sono mutuate acriticamente da qualche geniale esperienza di docenti molto esperti e trasferite nella realtà quotidiana della scuola senza verificare che ciò che è stato possibile in qualche circoscritto caso sia in grado, in contesti diversi, di sprigionare un analogo effetto positivo. Qualcosa del genere è accaduto – ad un altro e più alto livello – con la celebrazione del metodo finlandese e più recentemente con la segnalazione dei buoni esiti della scuola estone da cui, secondo alcuni, dovremmo prendere esempio.
Sulla scia degli studi che si riconoscono nell’Evidence-Based Education si sono frattanto moltiplicate le ricerche per fornire ai docenti un repertorio garante di buone pratiche validate dagli effettivi risultati raggiunti in aula, testate in varie parti del mondo. Questi studi smontano alcuni “miti” ricorrenti e segnalano indirettamente le metodologie più affidabili per produrre un buon apprendimento. Secondo rigorose valutazioni scientifiche condotte su ampia scala non risponderebbero alla realtà credenze largamente diffuse come, per esempio, che la lezione frontale sia nociva o inutile, che le tecnologie siano indispensabili per migliorare l’apprendimento, che bisogna sempre partire dalla pratica, che gli allievi devono saper trovare da soli la soluzione ai problemi loro proposti, che sia inutile il potenziamento della memoria individuale dal momento che è sempre disponibile quella dei computer, che il cosiddetto metodo della “classe capovolta” sia realmente efficace e non solo una moda passeggera.
Per chi avesse interesse a confrontare le varie innovazioni che oggi più circolano tra gli insegnanti con il rigore degli studi basati sulla Evidence-Based Education segnalo l’ottima sintesi in italiano curata da Antonio Calvani e Roberto Trinchero (Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene, Carocci Faber, 2019).
La prudenza necessaria per non restare vittime delle mode passeggere vale anche, e forse a maggior ragione, per un’ennesima attesa miracolistica legata all’impiego delle prassi della cosiddetta “scuola compassionevole” (compassate school), che lentamente fa proseliti anche da noi.
Alle origini di questo tipo di scuola stanno molteplici radici culturali. Esso ha debiti, in primo luogo, con i progetti terapeutici messi a punto da gruppi di psichiatri e psicoterapisti per adattare i ritmi scolastici normali a studenti vittime di gravi traumi, a soggetti affetti da disturbi di attenzione e di iperattività, per contenere manifestazioni comportamentali bisognose di interventi specialistici a base non solo farmacologica.
Accanto a questa estensione dell’intervento terapeutico in ambito scolastico limitato a situazioni molto particolari, si collocano – a più ampio raggio – altre influenze come il valore educativo attribuito ad alcune pratiche meditative, al potenziamento della capacità di autocontrollo, all’equilibrio tra creato e uomo in una prospettiva che richiama filosofie orientali. Non è casuale che il SEE, Social, Emotional, Ethical Learning, con sede nell’Università di Emory (Atlanta, Usa), uno dei maggiori centri di promozione delle teorie compassionevoli, goda, per esempio, dell’alto patrocinio del Dalai Lama. Il tutto sullo sfondo dell’importanza crescente riconosciuta alle emozioni specialmente durante e dopo la stagione del Covid che le hanno fatto scoprire o riscoprire a molti, soprattutto adolescenti e giovani.
In via generale la prospettiva pedagogica compassionevole si basa sulla valorizzazione delle buone relazioni interpersonali. Queste sono, tuttavia, soltanto la base di partenza. La scuola centrata sulla compassione è guidata in modo speciale dall’empatia compassionevole: non la semplice empatia, ma una empatia innervata di un sentimento più forte – la compassione – che aiuta a superare sofferenze e le situazioni di disagio. L’obiettivo è triplice: aiutare a vivere in uno stato benessere individuale e collettivo, gestire e superare i conflitti e tessere relazioni non solo buone, ma appaganti e comprendere l’altro e le sue difficoltà, il tutto sostenuto dall’esercizio metodico della meditazione personale.
Nella scuola compassionevole non si valutano gli allievi, ma ci si limita a prendere atto del risultato raggiunto qualunque esso sia, il maestro è un compagno di viaggio, non un giudice, e gli è chiesto di programmare attività che evitino ogni stress da prestazione, l’intesa emozionale tra gli alunni e con gli insegnanti è condizione e garanzia di successo scolastico.
Tre brevi osservazioni. La prima. La scuola compassionevole non è una novità. Se ne ha traccia, se pur con alte denominazioni, scorrendo il filo conduttore – oggi modulato sul tema delle emozioni – che dal XVIII secolo (Jean Jacques Rousseau, Johann Paul Richter) e poi, attraverso le teorie libertarie primo novecentesche (il movimento dei Wandervögel in Germania, la Summerhill School di Alexander Neill) fino all’anti-autoritarismo psicoanalitico degli anni 60 e 70 del secolo scorso, ha condotto una costante critica alla scuola basata sulla trasmissione del sapere, rivendicando la superiorità dei diritti della libertà dell’allievo sulla normatività gestita dal maestro.
La seconda. Lo spostamento del baricentro pedagogico dalla scuola del sapere e dell’esercizio critico alla scuola come centro di promozione del benessere e delle buone relazioni comporta almeno due ordini di rischi. Il primo è la sottovalutazione del valore educativo dello sforzo scolastico. Quando esso è commisurato sulle capacità dell’allievo e alla sua portata, il superamento della difficoltà suscita aumento dell’autostima e costituisce una riserva motivazionale per superare ulteriori prove. Anche l’eventuale fallimento non necessariamente è accompagnato da stress e disistima di sé. Molto dipende da come insegnanti e genitori sanno gestire questi momenti. Il secondo rischio è quello di sottovalutare l’esercizio scolastico come palestra di allenamento alla formazione del giudizio critico, alla discussione e al confronto tra tesi diverse, alla consuetudine con i comportamenti adeguati per essere cittadini attivi e consapevoli.
La terza. Sarebbe tuttavia superficiale anche non sottolineare alcuni aspetti condivisibili. La scuola compassionevole nelle sue forme meno radicali suggerisce e conferma che l’apprendimento è tanto più efficace quando più è accompagnato da un clima scolastico ricco di atteggiamenti positivi (l’accoglienza, la valorizzazione dell’alunno, ecc.), dalla coltivazione di quelle disposizioni personali che solitamente riconosciamo nelle soft skills e da pause dedicate allo studio e alla riflessione personale. Pratiche didattiche che i docenti più esperti, del resto, ben conoscono e mettono quotidianamente in pratica.
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