La scuola italiana, intesa non tanto come istituzione, quanto come insieme degli orientamenti pedagogici che la determinano, è impegnata da una decina di anni nel passaggio epocale dal modello trasmissivo al modello laboratoriale. Di che cosa si tratta esattamente?
Un riferimento potrebbe essere il movimento delle Avanguardie educative, fondato nel 2014 da una ventina di scuole italiane, il cui manifesto costitutivo definisce bene questo processo. Si legge nel documento: “Un modello esclusivamente basato sulla trasmissione delle conoscenze dalla cattedra è un modello ormai anacronistico: oggi esistono nuovi e più coinvolgenti modi di fare lezione”. Ancora, il vero insegnante è chiamato a “trasformare la lezione in una grande e continua attività laboratoriale, di cui è regista e facilitatore dei processi cognitivi […] che lascia spazio alla didattica collaborativa e inclusiva, al brainstorming, alla ricerca, all’insegnamento tra pari”.
Si tratterebbe di una rivoluzione che va di pari passo con quella sorta di apprendimento indotto derivante dal prevalere, nel nostro tempo, delle conoscenze ICT. Si tratta degli stimoli prodotti dalle tecnologie dell’informazione, e dal contestuale abbandono delle conoscenze tradizionali. La dinamica tradizionale con cui si è finora prodotto il sapere (ascolto, leggo, ripeto, imparo), sarebbe in questo modo sostituita dalla seguente successione di azioni: non ascolto perché possiedo già le nozioni di base che mi servono per vivere nel mondo, condivido questo mio sapere e sono aperto agli apporti degli altri, preferibilmente in rete.
Il suddetto manifesto è esplicito su questo punto basilare: “Le ICT permettono il nascere di nuove metodologie cooperative di scrittura, lettura e osservazione dei fenomeni; consentono la rappresentazione dei concetti avvalendosi di ambienti di simulazione, di giochi educativi, di applicazioni e software disciplinari”. Ne risulterebbe totalmente superato il modello organizzativo fondato sull’aula e sull’orario (“Il ripensamento comprende sia la configurazione sia la gestione del tempo dell’apprendimento, [nonché] Il superamento di steccati rigidi come il calendario scolastico, l’orario delle lezioni e la parcellizzazione delle discipline in unità temporali”).
A riprova di quanto si stia diffondendo questa filosofia dell’istruzione, si possono citare, tra le tante, alcune argomentazioni esposte nel sito di informazione scolastica Orizzonte Scuola a firma Carlo Salvitti (9 gennaio 2020): “Cosa vuol dire insegnare, oggi? Non certo si può parlare ancora di ‘trasmissione’ del sapere, non solo di quello. Oggi il sapere, la sua acquisizione, si stimola: si creano ambienti di apprendimento nei quali gli studenti creano attivamente il loro sapere, lavorano da soli, in coppia o in gruppi con la supervisione dell’insegnante. La cosiddetta lezione frontale, da sola, non basta più. Non è da demonizzare ma da arricchire! L’insegnante non trasmette, ma mette la sua conoscenza a disposizione dei discenti cosicché questi siano portati ad assaporare la curiosità di sapere in maniera responsabile e autonoma”.
I due anni di didattica a distanza (Dad) sopportati da studenti, famiglie e scuole durante la pandemia hanno in qualche modo contribuito a proclamare la superiorità dello strumento tecnologico rispetto al rapporto faccia a faccia. In relazione alle varie azioni legate all’attuazione del Pnrr, il Miur già dalla fase immediatamente successiva al lockdown aveva previsto la didattica laboratoriale come strumento “per il potenziamento delle competenze, in modo da superare le attuali criticità, anche attraverso una personalizzazione degli apprendimenti” (Orientamenti per l’attuazione degli interventi nelle scuole, luglio 2022). Tutto quanto è successo in seguito (ridefinizione del docente come tutor e facilitatore degli apprendimenti) non è altro che una ricaduta di questa impostazione.
Rispetto alla domanda educativa delle persone più giovani, tuttavia, queste dinamiche non sembrano del tutto adeguate e corrispondenti, se intese solo come asettici meccanismi. Negli anni Settanta, il filosofo e pedagogista austriaco Ivan Illich aveva enunciato il principio della descolarizzazione della società (così si intitolava un suo famoso libro). In base al principio secondo il quale “nessuno educa nessuno, e neppure sé stesso, gli uomini si educano tra loro” enunciava che l’obbligo di frequenza scolastica si configurava come un effettivo impedimento al diritto di apprendere. Non si trattava di fare a meno della scuola, ma di svincolarla dai meccanismi sociali di derivazione capitalistica (a suo dire) di appropriazione del tempo libero e di uniformità della didattica in funzione della riproduzione di comportamenti omogenei.
Il risultato di questa impostazione era la separazione di educazione e scuola, essendo la scuola un luogo democratico dove non si apprendono dei compiti ma semmai si compiono liberamente delle attività. Riguardo al capitalismo e alla scuola come fucina di sfruttamento delle giovani generazioni, le teorie della destrutturazione di matrice sessantottina sono incorse in plateali fallimenti, perché il diritto all’istruzione, garantito dalla Costituzione, ha reso la scuola un ineliminabile fonte di miglioramento e ascesa anche sociale dei ceti disagiati, se posti nelle condizioni di potere accedere alle medesime risorse culturali di tutti gli altri. Certo in Italia si potrebbe fare meglio, ma non è questo il punto. Il punto è che la separazione di scuola ed educazione, posta da Illich, potrebbe verificarsi nei nuovi ambienti, più o meno futuristici, dove non esisterebbe, per definizione, comunicazione di esperienze conoscitive (la conoscenza è sempre un’esperienza).
La battaglia che alcuni paesi europei, si parla di Svezia, Olanda, Francia, stanno intraprendendo contro i dispositivi tecnologici a scuola (smartphone, tablet, ChatGPT) dopo averne concesso ampio utilizzo, è indice di una preoccupazione (giusta) rivolta all’indebolimento dei meccanismi dell’apprendimento individuale mnemonico e cognitivo, minacciati dall’intelligenza artificiale. Ma il vero problema, rispetto al quale le nuove regole e i divieti paiono insufficienti, è quello educativo. Se nella scuola non si realizza un vero incontro tra due umanità, quella dell’adulto che offre un’ipotesi di vita e quella dell’alunno che nello studio e nelle relazioni la verifica, non solo non esiste apprendimento, non esistono neppure le premesse per la crescita di comunità e di società complesse come le attuali.
Dunque è bene non demonizzare troppo gli strumenti innovativi, come allo stesso modo non buttare con l’acqua sporca la sempre valida tradizione del maestro che insegna trasmettendo con il sapere la propria visione globale dell’universo. Sempre ammesso che sia aiutato a farlo.
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